Questa legge va fermata «nell´interesse della democrazia, che deve garantireil controllo di legalità, e che deve assicurare trasparenza di informazione.
Non c´è compromesso possibile su questioni di principio, che riguardano i
diritti dei cittadini, i doveri dello Stato». Le parole di Ezio Mauro su
Repubblica ripropongono il tema della disobbedienza civile, ovvero il limite
oltre il quale obbedire può contribuire a riconoscere una legge ingiusta.
E lo ripropongono in un momento nel quale la democrazia costituzionale è a
rischio poiché chi ha ottenuto la maggioranza per governare sta accampando
pretesti per cambiare le regole: per governare secondo le proprie regole, per i
propri desideri e interessi. L´Italia si trova di fronte a un bivio e la
proposta di legge bavaglio è una tappa decisiva verso una pericolosissima fase
anticostituzionale. Che cosa fare per impedire una nuova stagione liberticida?
E prima ancora, come comportarsi di fronte a questa legge, se venisse approvata
dal Parlamento?
Se questa legge passasse, molti cittadini si troverebbero fatalmente a dover
decidere se rispettare la legge o rispettare la verità, se obbedire alla
maggioranza o alla costituzione, poiché chiaramente la contraddizione tra le
due è ormai aperta. Come ci ha fatto comprendere il presidente del Consiglio,
la costituzione è un impaccio del quale lui vuole liberarsi; un impaccio come
la libertà di stampa e l´autonomia della magistratura. Ma quando una decisione
politica mette legge e verità, legge e Costituzione in contraddizione tra di
loro, è la libertà di tutti a rischio. È su questo semplice ragionamento che si
basa la disobbedienza civile, un´azione che è possibile solo dove la politica è
sotto lo scrutinio permanente e pubblico dei cittadini e condotta nei limiti
della costituzione.
È negli Stati Uniti che si è sviluppata la più ricca e completa teoria della
disobbedienza civile: prima contro la schiavitù, poi contro la coscrizione
obbligatoria per la guerra del Vietnam. La cornice ideale l´hanno tracciata
David Henry Thoreau e Martin Luther King, i quali presero la strada della
disobbedienza civile consapevoli che la loro scelta avrebbe comportato la
repressione, ma senza per questo desistere. La disobbedienza è «civile» appunto
perché fatta rispettando le leggi, perché chi disobbedisce accetta le
conseguenze punitive previste. Non è dunque la legge che la disobbedienza
civile rifiuta e contesta, ma una specifica decisione di una specifica
maggioranza. La quale, quando provoca una reazione così radicale da parte dei
cittadini, è davvero contro la legge, fuori della legge.
Thoreau nel 1846 rifiutò di pagare le tasse al governo federale per non
contribuire a finanziare una guerra ingiustificata, quella contro il Messico, e
una legislazione che sosteneva la schiavitù degli stati del Sud. Spiegò il suo
gesto in una lezione al locale liceo pubblico di Concord, nel Massachusetts,
che divenne il testo canonico della disobbedienza civile: se la coscienza del
cittadino onesto è il sovrano ultimo della democrazia, quando la legge votata
da una maggioranza la viola gravemente, la disobbedienza è un atto dovuto a se
stessi, un dovere di onestà. Più politica ma non meno radicale la posizione che
tenne Luther King, un secolo dopo, questa volta contro la segregazione razziale
imposta da decisioni ingiuste. Il leader del movimento americano per i diritti
civili scrisse dalla prigione di Birmingham, Alabama, un memorabile discorso-
sermone nel quale, affidandosi ad autori religiosi e laici, da San Tommaso a
Thomas Jefferson, giustificò la disobbedienza ad una decisione ingiusta con
l´argomento che quest´ultima viola il patto fondamentale che tiene insieme la
società civile e si mette, lei non i disobbedienti, fuori della legge. Anche
per Luther King come per Thoreau, disobbedire era un dovere del cittadino se
obbedire significava lasciare che la legge fondamentale venisse calpestata.
Disobbedire voleva dire non solo conservare la propria dignità di cittadini ma
anche difendere lo spirito e la lettera della Costituzione. Al dispotismo della
maggioranza si risponde riconoscendo obbedienza alla norma fondamentale. Questo
principio fu ribadito da John Rawls negli anni della guerra in Vietnam. Rawls,
in un saggio memorabile nel quale dettò una specie di statuto della
disobbedienza civile, spiegò che questa è l´ultima ratio, una scelta che è
fatta dai cittadini singoli e che viene dopo che tutti i passi politici per
impedire l´approvazione di una legge sono andati a vuoto: dall´opposizione
parlamentare, alle manifestazioni dell´opinione pubblica, al controllo di
costituzionalità degli organi competenti. Alla fine, se tutto ció non ha
sortito effetto, non resta che la responsabilità di chi individualmente si
trova nella condizione di dover decidere se obbedire o no a quella legge.
La disobbedienza civile è per questo un segnale fortissimo di emergenza
democratica perché con essa i cittadini si mettono individualmente nelle mani
della legge proprio quando la disobbediscono: facendosi disobbedienti restano
soli davanti al potere coercitivo dello Stato. Questa estrema ratio, quando
necessaria, è una denuncia della situazione di incostituzionalità nella quale
si trova a operare la maggioranza con la sua smania dispotica di liberarsi
dalle regole. «Vogliamo arrivare a un nuovo sistema in cui non si debbano
chiedere più permessi, autorizzazioni, concessioni o licenze», ha detto il
Premier, definendo i controlli previsti dalla Carta «una pratica da Stato
totalitario, da Stato padrone che percepisce i cittadini come sudditi».
Ma è lui, è una maggioranza che si vuole incoronare sovrana che ci farebbe
sudditi e servi se passasse questa pericolosa politica anticostituzionale, se
passasse questa legge bavaglio: la madre di tutte le leggi liberticide.
Silenziare le opinioni, spegnere la mente dei cittadini rendendoli bambini
idioti davanti a una televisione che commercia il nulla: è questa l´Italia che
il nostro Premier ha costruito in questi anni, un serraglio di docili sudditi
che egli chiama popolo della libertà. Dove si fermerà questo incalzante assalto
alle nostre libertà fondamentali?
La Repubblica 12.06.10
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“Ecco perché bisogna fermarla”, di Roberto Saviano
La Legge bavaglio non è una legge che difende la privacy del cittadino, al
contrario, è una legge che difende la privacy del potere. Non intesa come
privacy degli uomini di potere, ma dei loro affari, anzi malaffari. Quando si
discute di intercettazioni bisogna sempre affidarsi ad una premessa naturale
quanto necessaria. La privacy è sacra, è uno dei pilastri del diritto e della
convivenza civile.
Ma qui non siamo di fronte a una legge che difende la riservatezza delle
persone, i loro dialoghi, il loro intimo comunicare. Questa legge risponde al
meccanismo mediatico che conosce come funziona l´informazione e soprattutto
l´informazione in Italia. Pubblicare le intercettazioni soltanto quando c´è il
rinvio a giudizio genera un enorme vuoto che riguarda proprio quel segmento di
informazioni che non può essere reso di dominio pubblico. Questo sembra essere
il vero obiettivo: impedire alla stampa, nell´immediato, di usare quei dati che
poi, a distanza di tempo, non avrebbe più senso pubblicare. In questo modo le
informazioni veicolate rimarranno sempre monche, smozzicate, incomprensibili.
L´obiettivo è impedire il racconto di ciò che accade, mascherando questo con
l´interesse di tutelare la privacy dei cittadini. Chiunque ha una esperienza
anche minima nei meccanismi di intercettazione nel mondo della criminalità
organizzata sa che vengono registrati centinaia di dettagli, storie di
tradimenti, inutili al fine dell´inchiesta e nulle per la pubblicazione. Il
terrore che ha il potere politico e imprenditoriale è quello di vedere
pubblicati invece elementi che in poche battute permettono di dimostrare come
si costruisce il meccanismo del potere. Non solo come si configura un reato.
Per esempio l´inchiesta del dicembre 2007 che portò alla famosa intercettazione
di Berlusconi con Saccà ha visto una quantità infinita di intercettazioni di
dettagli privati, di cui in molti erano a conoscenza ma nessuna di queste è
stata pubblicata oltre quelle necessarie per definire il contesto di uno
scambio di favori tra politica e Rai.
La stessa maggioranza che approva un decreto che tronca la libertà di
informazione in nome della difesa della privacy decide attraverso la Vigilanza
Rai di pubblicare nei titoli di coda il compenso degli ospiti e dei conduttori.
Sembra un gesto cristallino. E´ il contrario. E non solo perchè in una economia
di mercato il compenso è determinato dal mercato e non da un calcolo etico. In
questo modo i concorrenti della Rai sapranno quanto la Rai paga, quindi il
meccanismo avvantaggerà le tv non di Stato. Mediaset potrà conoscere i compensi
e regolarsi di conseguenza. Ma la straordinaria notizia che viene a
controbilanciare quella assai tragica dell´approvazione della legge sulle
intercettazioni è che il lettore, lo spettatore, quando comprende cosa sta
accadendo diviene cittadino, ossia pretende di essere informato. Migliaia di
persone sono indignate e impegnate a mostrare il loro dissenso, la volontà e la
speranza di poter impedire che questa legge mutili per sempre il rapporto che
c´è tra i giornali e i suoi lettori: la voglia di capire, conoscere, farsi
un´opinione. Non vogliamo essere privati di ciò. Mandare messaggi ai giornali,
mostrarsi imbavagliati, non sono gesti facili, scontati. Non sono gesti che
permettono di sentirsi impegnati. Sono la premessa dell´impegno. L´intento
d´azione è spesso l´azione stessa. Il dichiararsi non solo contrari in nome
della possibilità di critica ma preoccupati che quello che sta accadendo
distrugga uno strumento fondamentale per conoscere i fatti. La legge che
imbavaglia, viene contrastata da migliaia di voci. Voci che dimostrano che non
tutto è concluso, non tutto è determinabile dal palinsesto che viene dato agli
italiani quotidianamente. Ogni persona che in questo momento prende parte a
questa battaglia civile, sta permettendo di salvare il racconto del paese, di
dare possibilità al giornalismo – e non agli sciacalli del ricatto – di
resistere. In una parola sta difendendo la democrazia.
La Repubblica 12.96.10
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“Il cavaliere impunito e la regola del silenzio”, di Giorgio Bocca
Giù la maschera. Quello che vuole, che pretende la maggioranza al potere è
l´impunità totale, il silenzio sui suoi furti e malversazioni. Ai tempi di
tangentopoli la maggioranza al potere si accontentava di far passare i suoi
furti per legittima pubblica amministrazione.
Ricordate la tesi del craxiano Biffi Gentili? Se i politici sono chiamati ad
amministrare grandi città, grandi problemi con competenze da tecnocrati perché
non devono essere pagati come tali? E se non lo sono perché si vuole impedire
che si autofinanzino? Oggi la maggioranza al potere non ha più bisogno di
questi sofismi. Rivendica il diritto di rubare attraverso la politica come un
normale, dovuto diritto di preda. Al tempo di tangentopoli i socialisti
craxiani ma anche quelli di altri partiti avevano nascosto i furti per mezzo
della politica nei conti «protetti» cioè segreti in Svizzera a Singapore a Hong
Kong. E avendo messo il bottino al sicuro si erano tolti anche il gusto di
prendere per i fondelli i loro concittadini con la tesi assurda che
l´autofinanziamento dei partiti non era solo una necessità ma un dovere di chi
si faceva carico di amministrare lo Stato e la democrazia.
Oggi nella Italia berlusconiana il furto attraverso la politica è scoperto,
normale. Appena si può si ruba e viene il sospetto che sia avvenuta una
mutazione antropologica, che la maggioranza al potere sia convinta che l´uso
della politica per rubare sia non solo normale ma lodevole e che le istituzioni
abbiano il dovere di proteggerlo. L´Italia un tempo paese dei misteri, delle
società segrete, delle congiure massoniche sotto l´egida del cavaliere di
Arcore sta diventando una democrazia autoritaria dichiarata e compatta a difesa
dei suoi vizi e dei suoi furti. Perché opporsi al bavaglio che viene imposto
all´informazione? Non aveva ragione Mussolini ad abolire la cronaca nera e a
coprire gli scandali del regime? Esiste un modo più efficace di lavare i panni
sporchi in gran segreto senza che le gazzette li mettano in piazza?
L´imprenditore Anemone che si rifiuta di rispondere ai magistrati che indagano
sui suoi affari non è la pecora nera, l´eccezione ma la norma della società
berlusconiana del fare tutto ciò che comoda ai padroni, senza pagare dazio.
La conferma della mutazione antropologica viene dal fatto che i politici presi
con la mano nella marmellata mostrano più stupore che vergogna. La loro
corruzione era normalissima, candida, da buon padre ladro di famiglia. A uno
era bastato pagare una garconnière al centro di Roma, un altro aveva lasciato
mano libera agli impresari edili dopo il terremoto in cambio di una revisione
in casa sua dei servizi igienici, diciamo del funzionamento del cesso e del
bagno. Ad altri ancora la possibilità di avere a spese dello Stato qualche
mignotta, insomma la grande crisi della politica italiana, il grande rischio di
una democrazia autoritaria, di una dittatura mascherata, morbida starebbe nella
banalità del male, nei piccoli vizi nelle piccole tentazioni della cosiddetta
classe dirigente.
Un´Italia senza misteri con un capo del governo schietto, schiettissimo. Che
vuole? Che pretende? Il minimo di un uomo del fare più che del pensare: di non
avere controlli, di non avere intralci e se gli viene in testa di allevare un
cavallo nessuno si permetta di obbligarlo a tirar su una mucca. Che cosa ha
scoperto il Cavaliere? Quello che avevano scoperto prima di lui tutti gli
uomini autoritari del fare, che i controlli sono fastidiosi e a volte
insopportabili. In una parola: che la democrazia è più complicata e faticosa
della dittatura.
La Repubblica 12.06.10