cultura

"La supremazia del cupolone", di Salvatore Settis

Che cosa fare per salvare la campagna romana dalle colate di cemento, dall´assedio delle periferie (che l´etichetta ipocrita di «centralità» non salva dallo squallore e dal degrado)?
Il Sindaco Alemanno ha una sua ricetta: per «fermare la crescita a macchia d´olio» occorre «rompere i tabù», abolire l´antico vincolo per cui nulla nel territorio comunale può superare l´altezza della cupola di San Pietro. «Densificare la periferia», costruendo grattacieli «come l´Eurosky dell´Eur, che sarà l´edificio residenziale più alto d´Italia». Anzi, «demolire le periferie e ricostruirle», «densificando»: una Roma di grattacieli «accanto al centro storico più importante al mondo».
Diagnosi giusta, ricetta sbagliata. L´orrido urban sprawl che assedia non solo Roma, ma tutte le nostre città, va contrastato mediante nuove politiche dell´abitare, con una gestione del paesaggio conforme alla tradizione (e alla Costituzione), abbattendo e riqualificando. Rivoluzione che non si compie in una notte, ma presupporrebbe il diffondersi di una cultura urbanistica e architettonica meno sgangherata di quella che sta divorando un Bel Paese sempre meno meritevole di tal nome. Richiederebbe il rispetto delle regole, a cominciare da un Codice dei Beni Culturali che è quanto di più bipartisan si possa immaginare (portando le firme dei ministri Urbani, Buttiglione, Rutelli), ma che tutti s´industriano a dilazionare, modificare, aggirare con deroghe, o francamente a ignorare. Esigerebbe legioni di architetti meglio attrezzati, di assessori meno proni al volere d´ogni palazzinaro, di cittadini capaci d´indignarsi. Nell´orizzonte italiano (e non solo di Roma) io non vedo l´alba di questa nuova consapevolezza, né il tentativo di crearla, agendo (per esempio) nelle scuole, facendo di questi temi uno dei centri della discussione politica, coinvolgendo nella discussione i cittadini, le associazioni per la tutela e per l´ambiente.
Vi fu un tempo, specialmente in Italia, in cui la costruzione della città implicava, per scelta civile ma anche per tensione etica e politica, un atto consapevole di auto-limitazione. Il principio era uno e uno solo: il bene comune, con l´intesa (che non ebbe mai bisogno di argomenti, perché non aveva avversari che osassero fiatare) che esso doveva coincidere con la bellezza e l´ornamento della città. Il Costituto di Siena del 1309 dice espressamente che «intra li studii et solicitudini è quali procurare si debiano per coloro, che hanno ad intendere al governamento de la città, è quello massimamente che s´intenda a la bellezza della città», perchè la città –continua-dev´ essere «onorevolmente dotata et guernita», tanto «per cagione di diletto et allegrezza» ai forestieri quanto «per onore, prosperità et accrescimento de la città et de´ cittadini di Siena». Gli Statuti comunali (ma anche quelli delle città regie, per esempio di Sicilia) prescrissero per secoli gli stessi principi in tutta quella che oggi si chiama Italia, e con buona pace della Lega si chiamava così anche allora: bellezza, decoro, ornamento, dignità, onore pubblico sono le parole martellate dalle Alpi alla Sicilia, alla Sardegna. Per secoli. Al privato che rivendicava i propri diritti di proprietà, sempre si rispose che ogni interesse del singolo dev´esser sovrastato dal pubblico bene, e si ricorse alla nozione giuridica di publica utilitas fondandola sopra la tradizione del diritto romano. A Roma Gregorio XIII, nella costituzione apostolica Quae publice utilia et decora (1574), proclamò sin dalle prime righe l´assoluta priorità del bene e del decoro pubblico sulle cupiditates e sui commoda [interessi, profitti] dei privati, e sottopose a rigoroso controllo l´attività edilizia di tutti i privati (anche gli ecclesiastici, anche i cardinali).
Non vi fu, allora, un Berlusconi che al grido di «padroni in casa propria!» accusasse quel Pontefice di cripto-comunismo. Ma l´urban sprawl che ci affligge, e che giustamente Alemanno denuncia e vuole arrestare, è figlio del tramonto del pubblico bene, e del trionfo degli interessi del singolo. Le periferie-centralità che si sono insediate fra gli acquedotti dell´antica Roma, fra le tombe e le ville dei Cesari, da questo nacquero: dietro ogni orrore c´è un cedimento (per non dir complicità) delle amministrazioni capitoline, una genuflessione davanti ai vantati diritti del privato, un´offesa a due millenni di priorità del bene pubblico sulla cupiditas privata. Di quelle scelte Alemanno non ha colpa: ma i suoi grattacieli, che pretendono di essere l´opposto dell´urban sprawl, sono più probabilmente il rilancio e la legittimazione di una crescita periurbana tanto più disordinata quanto più «densificata».
In molte città d´Italia si scelse per secoli il monumento-simbolo che servisse da esaltazione dello skyline : a Siena fu la Torre del Mangia, a Modena la Ghirlandina, a Roma la cupola di San Pietro. Misure convenzionali, certo, ma altamente simboliche di un´etica del self-restraint, di un´idea della città unitaria, compatta, dotata di memoria, di un´anima. Capace di pensare se stessa. Quello che Alemanno chiama «tabù» fu in vrità proprio il contrario: una scelta meditata, misurata, consapevole, ricca non solo di storia o di memoria, ma di quella che potrebbe chiamarsi la modellazione del futuro. L´idea era semplice: conservare lo spirito della forma urbis imperniandola su moduli-base di crescita. Costringere l´architetto (anche il più grande) entro regole di rispetto della memoria storica, così come il poeta (anche il più grande) deve comporre i suoi versi secondo misure prestabilite. Creare per i nostri figli un´armonia che somigli a quella che abbiamo ricevuto dai nostri padri.
Vedremo a che cosa somiglieranno i grattacieli proposti da Alemanno, e in che cosa sapranno distinguersi dalle architetture in genere scellerate che infestano quello che fu l´agro romano. Vedremo se essi tracceranno una nuova forma urbana, o saranno una corona di spine che assedia, o crocifigge, il centro storico «più importante al mondo». Vedremo se sapranno rimediare a quella indeterminata e incessante espansione delle periferie ai danni dell´ambiente naturale e storico, sempre più marcatamente dissolto nella confusione di una disordinata megalopoli; o se, al contrario, ne aggraveranno i problemi proprio col «densificarla». Lo vedranno, prima di tutto, i romani, se –come Alemanno promette-saranno chiamati a una consultazione popolare. Ma con quali informazioni? Con quale cultura urbanistica e architettonica? Con quale senso del bene comune?

La Repubblica 09.06.10