Le piccole e medie imprese italiane per uscire dalla crisi, difendere l’occupazione e porre le basi per contribuire al rilancio economico dell’intero paese, hanno bisogno di specifiche politiche che tengano conto della loro dimensione e del loro ruolo. Le cifre, anche quelle emerse da un evento di alcune settimane fa all’Auditorium di Roma, parlano da sole. All’associazione Rete Imprese Italia – costituita per iniziativa di Confesercenti, Confartigianato, Confcommercio, Cna e Casartigiani, le maggiori associazioni di Pmi italiane – aderiscono circa due milioni e mezzo di imprese con 14 milioni di addetti, circa il 60 per cento della forza lavoro italiana con un valore aggiunto di 800 miliardi di euro prodotto in media ogni anno: vale a dire la spina dorsale dell’economia italiana.
All’importanza di questa rete non ha corrisposto finora un’attenzione altrettanto forte da parte delle istituzioni e della politica. E i colpi che le sono stati inferti dalla crisi ne sono la dimostrazione.
Dopo il disastro del 2009, nel primo trimestre di quest’anno è stato registrato (dati Unioncamere) un saldo negativo nel numero delle imprese, tra nuove iscrizioni e cessazioni, di oltre 16mila unità, il terzo peggior risultato nella classifica del decennio, segno di una sofferenza ancora lontana dall’essere superata.
All’origine, soprattutto le difficoltà di accesso al credito.
Proprio da qui si deve partire per invertire la rotta.
L’attenzione non basta e tantomeno bastano gli attestati di solidarietà. Servono risposte concrete. Come Partito democratico abbiamo incontrato nelle scorse settimane i rappresentanti di Rete Imprese Italia e dei sindacati confederali, con l’obiettivo di mettere le basi per arrivare a proposte legislative condivise.
Dalla discussione sono emersi alcuni temi prioritari che devono essere iscritti nell’agenda politica. Si tratta di fornire al più presto risposte concrete su: accesso al credito, che, come l’esperienza di questi anni ha drammaticamente dimostrato, è assai difficile specie in situazioni di crisi; esso va favorito attraverso il consolidamento e la ricapitalizazione dello strumento dei confidi, che si è rivelato provvidenziale nell’attuale situazione; ridefinizione dei rapporti con la pubblica amministrazione, con attenzione all’accorciamento dei tempi di pagamento per appalti e forniture, oggi tali da strangolare anche chi non è in condizioni di particolare difficoltà; formazione, utilizzando pienamente (come è già avvenuto) i fondi interprofessionali e consentendo il suo utilizzo anche agli stessi titolari di piccola impresa; accelerazione dell’effettiva creazione – dopo i tentativi del passato – di quello sportello unico per l’impresa che dovrebbe essere in grado di semplificare gli iter burocratici ai quali le aziende devono far fronte; superamento del metodo del cosiddetto click day per l’accesso ai finanziamenti per l’innovazione, voluto dal governo, che esclude nei fatti la possibilità per le piccole imprese di aggiudicarsi le risorse stanziate; riattivazione degli incentivi per l’auto- imprenditorialità, soprattutto a vantaggio dei giovani; destinazione di una quota dei grandi appalti alle aziende che svolgono la loro attività nel territorio; previsione di normative specifiche a tutela delle piccole imprese che operano in condizioni di mercato caratterizzate da situazioni di tipo monopolistico.
E si deve andare anche oltre. La situazione di crisi che stiamo vivendo ormai da quasi tre anni ci ha insegnato che non esistono differenze sostanziali tra gli obiettivi del lavoro dipendente, del lavoro autonomo e della piccolissima impresa. Ciò deve stimolare la politica a riconsiderare le coordinate di un welfare universale che sappia interpretare in modo corretto gli ulteriori cambiamenti che la difficilissima congiuntura economica internazionale e il suo superamento indurranno nel tessuto economico e sociale del paese. Lavoratori e piccoli imprenditori vanno difesi allo stesso modo. Si deve avere il coraggio di dirlo e di farlo.
da www.europaquotidiano.it