Di fronte al profluvio di notizie che da settimane si riversa sui giornali a proposito dell’inchiesta sulla cosiddetta «cricca» gran parte dei politici sono indotti a cedere alla tentazione di reagire con le maniere forti. L’inchiesta sta alzando il velo, più ancora che su responsabilità penali personali, sulla disinvoltura con cui un certo mondo gestisce il proprio potere, con i suoi regali agli amici degli amici e i suoi «aumma-aumma». Le «maniere forti» che i politici sono tentati di usare non consistono nella volontà di punire quel malcostume: ma nel mettere una museruola a coloro che quel malcostume lo rendono noto. Si dice infatti che tutto questo parlare di appalti e politica, di case e di massaggi, non sia altro che «macelleria mediatica». E’ il termine usato ad esempio da Guido Bertolaso, che ha negato di avere avuto in omaggio dal costruttore Anemone l’affitto di una casa. Ha naturalmente il diritto di difendersi, così come ciascuno di noi ha il dovere di non ritenerlo colpevole prima di una prova provata.
C’è però da riflettere su quanto sia giusto mettere tutte le notizie uscite in queste settimane nel pentolone della «macelleria mediatica», e su quanto sia motivata la tentazione dei politici di varare quell’ormai famosa «legge sulle intercettazioni» che a questa «macelleria» metterebbe fine.
Su questo giornale a più riprese abbiamo espresso le nostre perplessità, anzi la nostra contrarietà, a quella legge. E’ vero, abbiamo detto, che c’è stato un abuso nella pubblicazione di intercettazioni: però se passa quella legge scompariranno non solo agli abusi, ma anche le notizie. Di un’inchiesta come questa sulla «cricca», ad esempio, non sarebbe stato pubblicato un rigo.
Ora però ci pare ci sia dell’altro da aggiungere. Intanto, vien da chiedersi se sia sempre valida quella tanto invocata distinzione fra ciò che è penalmente rilevante e ciò che non lo è. Sì, è un distinguo doveroso: ma non sempre indiscutibile. Ci sono infatti anche comportamenti e atteggiamenti che non sono sanzionabili penalmente, ma che gettano una luce significativa sul modo di gestire un potere. L’inchiesta di cui stiamo parlando è diventata un caso mediatico proprio per questo: perché, al di là dei possibili reati, è emerso tutto un mondo parallelo, popolato da ministri politici e grand commis che – beati loro – trovano sempre qualcuno che a loro insaputa acquista, ristruttura, paga il canone. I favori, le amicizie di secondo e terzo grado, le raccomandazioni e pure il sesso non avranno nulla a che fare con le aule di tribunali (fino a un certo punto) ma restano comunque un altro universo rispetto alla vita più o meno agra di tanto popolo bue, alle prese con i suoi mutui, le sue liste d’attesa per un esame in ospedale, i suoi ticket. Specie ora che la crisi si fa nera e che il mondo politico è costretto a chiedere sacrifici, siamo sicuri che non siano «rilevanti» anche i comportamenti «non penalmente rilevanti» di un certo mondo?
E qui veniamo al nocciolo. In Italia, quel «certo mondo» – che poi o è quello della politica o è quello che alla politica gira attorno – è sempre stato visto come una casta la quale, invece di servire il Paese, se ne serve. Demagogia? Invidia? Luoghi comuni? Certo ci sono anche queste cose: demagogia, invidia e luoghi comuni. Ma non c’è dubbio che molte cose, o magari anche molte apparenze, abbiano sempre fatto sì che in Italia i rappresentanti del popolo non fossero popolari. Non lo erano nella Prima Repubblica, quando parlavano un linguaggio criptico che sembrava (ed era) più diretto al loro interno che non alla gente. E ancor meno lo è adesso, quando una nuova classe politica che si è autodefinita espressione della società civile ha tagliato fuori la società al punto da togliere agli elettori perfino la possibilità di scegliere gli eletti.
C’è sempre stata, in Italia, la distinzione fra un «noi» e un «loro»: e i politici erano e sono i più «loro» di tutti. Il mondo di privilegi e di arroganza che emerge dall’inchiesta-Anemone, e perfino apparenti sciocchezze come la razzia di biglietti per la finale di Champions League, non stanno facendo altro che aumentare la distanza fra quel «noi» e quel «loro». Non importa, ripeto, se su quel «loro» sia fiorita anche un’abbondante leggenda metropolitana. Importa che la distanza sia, come si usa dire adesso, percepita. Anche più che in passato, come dimostrano i dati sull’astensionismo alle urne.
Ecco perché liquidare tutto quel che sta filtrando dai palazzi di giustizia come «macelleria mediatica» è, oltre che un errore, una miopia. Mettendo il silenziatore ai giornalisti, i politici non farebbero altro che diventare ancora più «loro». Dovrebbero essere dunque i primi a favorire operazioni di trasparenza. Dovrebbero: ma non ci illudiamo che lo saranno.
La Stampa 03.06.10