PIÙ di così non si poteva fare », dice Berlusconi della manovra approvata dal governo «salvo intese», con una formula da vecchio pentapartito della Prima Repubblica. Almeno su questo il presidente del Consiglio ha ragione: 24 miliardi sono tanti, per un Paese che da una decina d’anni perde competitività e produttività e langue con un tasso di crescita dello 0,5%. Tuttavia meglio di così non solo si poteva, ma si doveva fare. Su questo il premier ha torto marcio. Non sono in discussione la necessità politica e l´urgenza economica di questa legge finanziaria fuori stagione, fatta di «sacrifici duri» e varata in corsa «per evitare che l´Italia faccia la fine della Grecia», secondo la definizione-shock usata tre giorni fa da Gianni Letta. Sono invece in discussione altri due aspetti, non meno essenziali: l´irresponsabilità ideologica e l´iniquità sociale.
L´irresponsabilità ideologica è iscritta nel codice genetico del berlusconismo, come forma di negazione della realtà e di manipolazione della verità. Questa «manovra epocale», o «tornante della storia» secondo la prosa enfatica di Tremonti, è precipitata sul Paese in un improvviso clima di «emergenza nazionale». Per più di due anni il premier ha raccontato che la crisi non c´è mai stata, o che comunque era già finita. In meno di due settimane si scopre invece che rischiamo la bancarotta. Un drammatico cambio di fase. Per gli italiani è un trauma psicologico, per il governo un cortocircuito politico. L´unico modo per uscirne sarebbe stata una grande operazione di onestà, e dunque una forte assunzione di responsabilità. Berlusconi, in sostanza, avrebbe dovuto presentarsi in tv e dire: signore e signori, i fatti mi hanno dato torto, ho sbagliato la mia analisi sulla crisi, me ne scuso e vi chiedo di fare, tutti insieme, un grande sforzo per salvare il nostro Paese e la moneta unica.
Questo sarebbe stato un «discorso sul bene comune», comprensibile e condivisibile. Esattamente quello che è mancato in queste ore, e che deve essersi perduto in questi giorni nell´aspro braccio di ferro tra il premier e il suo ministro del Tesoro. Ieri, in conferenza stampa, Berlusconi ha continuato a negare l´evidenza, segnando una «cesura» arbitraria tra la crisi finanziaria partita due anni fa in America con i mutui subprime, trasformatasi poi in crisi mondiale per le economie reali, e la crisi «speculativa» contro l´euro esplosa in queste ultime settimane. Ha scoperto oggi che «abbiamo un debito pubblico insostenibile per colpa dei governi della Sinistra» (dov´è stato lui dal ´94 in poi, e perché dal 2001 al 2006 ha azzerato l´avanzo primario che Ciampi aveva faticosamente portato al 5% del Pil?). Ha scoperto oggi che «abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità», e per questo «dobbiamo ridurre la presenza dello Stato in economia». Una lettura auto-assolutoria, che finge di non vedere le connessioni di questo disastro globale, per occultare le omissioni del governo di fronte ad esso.
Tremonti, al contrario, non ha mai negato la crisi. Non ha mai nascosto le difficoltà della fase, anche se non ha brillato per originalità delle soluzioni. Davanti all´attacco speculativo contro i debiti sovrani dell´eurozona, e di fronte al perdurare di una recessione ostinata, il ministro è stato coerente. Ha impostato una manovra «pesante», che riduce in due anni il deficit a colpi di taglio alla spesa pubblica. E l´ha affidata al premier, perché se ne assumesse la responsabilità di fronte al Paese. Ma è esattamente questo che il Cavaliere non può accettare. Che tocchi a lui l´ingrato compito di associare la sua immagine alla parola «sacrifici». Che tocchi a lui farsi «commissariare» non da Tremonti ma dalla verità, cioè dall´interpretazione che Tremonti dà della crisi. Che tocchi a lui, in definitiva, fare quello che fanno tutti i governanti normali nelle normali democrazie occidentali: spiegare ai cittadini cosa succede, e «rendere conto» delle scelte che si fanno. Tutto questo cozza contro l´ideologia berlusconiana, nutrita di suggestioni narrative e di moduli assertivi che rifiutano a priori il principio di realtà e dunque non contemplano, neanche a posteriori, l´etica della responsabilità.
L´iniquità sociale di questa manovra discende dalla sua stessa irresponsabilità ideologica. È giusto tagliare la spesa pubblica corrente e improduttiva, che soprattutto i governi di centrodestra hanno fatto crescere in questi anni a ritmi superiori al 2% l´anno. Ma è evidente a tutti che mai come stavolta la stangata è squilibrata e «di classe». Pesa quasi per intero sulle spalle del pubblico impiego. Nessuno nega le sacche di inefficienza e i relativi «privilegi» che si annidano in questo settore: dall´impossibilità di essere licenziati o cassintegrati ai rinnovi contrattuali spesso superiori al tasso di inflazione programmata. Ma nessuno può negare che i livelli retributivi, nel settore pubblico, siano in assoluto già bassi e spesso bassissimi. Come si fa a chiedere il tributo più doloroso a quei 3 milioni e 600 mila dipendenti pubblici che guadagnano in media 1.200 euro al mese, senza chiedere nulla a chi ha redditi infinitamente superiori nel privato, nelle professioni, nelle imprese? E come si fa a non vedere che Germania, Frangia e Gran Bretagna hanno varato manovre ancora più severe, imponendo lacrime e sangue prima di tutto ai ceti più abbienti e alle banche?
Ma anche qui, in fondo, c´è una spiegazione ideologica che giustifica la scelta. Si parte dall´assunto forzaleghista che vuole i dipendenti fannulloni per definizione. E dunque, implicitamente, il governo gli propone uno scambio immorale: io ti rinnovo la tua «sinecura», ma in cambio ti congelo gli stipendi per tre anni. E qui si annida l´estremo paradosso di questa manovra che si profila come una vera e propria controriforma. Con la batosta sul pubblico impiego e la scure sugli enti locali, Berlusconi azzera in un colpo solo le uniche due riforme di cui poteva fregiarsi in questo primo biennio di governo: la riforma del pubblico impiego di Brunetta e la riforma federalista di Bossi. Il decretone di ieri le distrugge entrambe, almeno fino alla fine della legislatura.
Di buono, alla fine, resta la quantità dei tagli, non certo la qualità. Speriamo che basti a convincere i mercati che noi non siamo tra i «maiali» di Eurolandia. Ma di certo non basta a dire che il Paese «è in mani sicure». E meno che mai a pensare che «siamo tutti sulla stessa barca», come ha detto ieri il Cavaliere. In troppi, a partire dagli evasori fiscali che hanno scudato i capitali, non rischiano la pelle in mezzo alla tempesta perfetta. Se ne stanno sul molo, a godersi lo spettacolo.
La Repubblica 27.05.10
Pubblicato il 27 Maggio 2010