La commissione Giustizia del Senato ha approvato a maggioranza gli emendamenti del governo al disegno di legge sulle intercettazioni. Sono previste limitazioni inaccettabili ai poteri dell’autorità giudiziaria, una cappa plumbea di silenzio nei confronti delle indagini penali in corso.
Inoltre, sanzioni severe per i giornalisti che contravvengono al nuovo regime e, soprattutto, per gli editori che consentono le pubblicazioni illegittime. Una disciplina che lascia stupefatti e che, se dovesse diventare davvero legge dello Stato, cambierebbe il volto delle indagini penali e di parte dell’informazione nel Paese.
Nonostante le critiche, le osservazioni e le proteste di una porzione consistente dell’opinione pubblica, l’azione non si è fermata. Non sono serviti i problemi economici urgenti, gli scandali della «cricca», il crollo di credibilità della classe politica, la necessità di affrontare finalmente il nodo della corruzione. In altre parole, le vere urgenze. La priorità, per il governo, era, ed è rimasta, tagliare le unghie alla magistratura che indaga e togliere voce e penna ai giornalisti che informano. Ne prendiamo atto con sconcerto, cercando di fare un bilancio di ciò che il Parlamento sta predisponendo.
In materia di indagini è risaputo che le intercettazioni costituiscono mezzo insostituibile di accertamento di molti gravi reati. Circoscrivere i casi nei quali esse possono essere disposte e stabilire che esse non possono durare più di un periodo prestabilito fisso di settantacinque giorni, e poi automaticamente cessare anche se stanno emergendo elementi utili ad individuare i responsabili, significa rinunciare ad uno strumento fondamentale nella lotta al crimine. Uno strano regalo alla criminalità, da parte di chi di tale lotta, dell’ordine pubblico e della difesa dei cittadini fa, almeno a parole, la sua bandiera. Un regalo, addirittura, alla criminalità organizzata, se è vero, che, come hanno spiegato gli esperti della materia, le restrizioni peseranno anche nelle indagini contro mafia, ’ndrangheta e camorra.
In materia d’informazione dovremo abituarci a non conoscere più nulla sulle indagini disposte dall’autorità giudiziaria. Se un ministro si fa pagare una casa a sua insaputa, non lo sapremo, perché i giornalisti non potranno più pubblicarlo. Come non sapremo più se un parlamentare, un presidente o un sindaco hanno peculato, rubato, si sono fatti corrompere o comprare e sono per questo indagati. A ciò conduce, inesorabilmente, l’avere previsto che non sarà più consentito pubblicare nulla, neppure «il contenuto» non più coperto da segreto, delle investigazioni giudiziarie in corso.
Le sanzioni previste per i contravventori sono, d’altronde, molto elevate. Chi dall’interno degli uffici rivela il contenuto di atti coperti da segreto investigativo sarà punito con la reclusione fino a sei anni, e in tale pena incapperà pure il giornalista che pubblicherà la notizia. Chi pubblica atti di un’indagine penale non più coperti da segreto, ma di cui è comunque vietata la pubblicazione, rischierà l’arresto fino a 30 giorni o il pagamento di un’ammenda da 1000 a 5000 euro, che sarà raddoppiata nel caso si tratti di un’intercettazione. Per l’editore del giornale che pubblicherà la notizia vietata è prevista una sanzione pecuniaria che potrà arrivare a 464.000 euro.
A quanto si è appreso, il varo definitivo in commissione del disegno di legge è stato sospeso fino a lunedì prossimo. In materia di sanzioni la novità più devastante è la pesantissima sanzione pecuniaria prevista per gli editori, che rischierà di alterare la relazione d’indipendenza che ha caratterizzato, fino ad oggi, il rapporto fra proprietà e direzione dei giornali. Pensate a che cosa accadrà quando, se si verificherà un’infrazione prevista dalla nuova legge, l’editore saprà di rischiare ben 464.000 euro. Credete davvero che, di fronte al pericolo di fallire e di chiudere l’azienda, si farà scrupolo d’imbavagliare, lui stesso, i direttori e i giornalisti? A quest’ulteriore scempio, a quanto pare, nessuno, nel palazzo, pensa di rimediare. La libertà di stampa è l’ultima delle preoccupazioni.
L’importante è creare un clima d’intimidazione complessiva in grado di bloccare ad ogni costo le notizie.
Si obietterà, a mali estremi, estremi rimedi. Gli abusi della stampa, con la pubblicazione di notizie coperte dalla privacy, con quella, indiscriminata, d’intercettazioni che non c’entrano con le indagini, con la demolizione mediatica di colpevoli ed innocenti, esigeva una reazione adeguata. L’obiezione è del tutto inconferente: a parare gli abusi sarebbe più che sufficiente la rigorosa applicazione della legge vigente sulla privacy, l’originaria previsione del divieto di rendere pubblici gli atti irrilevanti per le indagini e la predisposizione di un archivio riservato nel quale depositare provvisoriamente tali atti in attesa di una loro distruzione.
La realtà è che, con un colpo solo, governo e maggioranza (con l’avallo, magari, anche di qualche oppositore) vogliono indebolire la magistratura, rendere meno incisive le indagini, evitare che politici e potenti finiscano in prima pagina in ragione delle loro malefatte. Un’indebita limitazione del controllo di legalità e del diritto d’informare che, se dovesse passare, cambierebbe inevitabilmente la costituzione materiale. Speriamo che, nel frattempo, qualcuno che ha potere si accorga che è, anche, violazione della Costituzione formale.
La Stampa 21.05.10