Non capisco perché una donna che ha deciso di diventare madre pretenda poi di continuare a lavorare. Non capisco perché una donna che vuole lavorare decida di avere dei figli. Non capisco perché una donna che ha dei figli li lasci a casa con una babysitter. Non capisco perché andare a lavorare quando poi tutto lo stipendio viene preso dalle tate e i figli crescono senza una madre.
Tutte queste incomprensioni sono femminili. Tutte le lettere da cui ho tratto questi concetti sono firmate da donne. Tutte queste frasi sono arrivate in risposta ad un articolo dove non si parlava né di donne né di mamme né di figli e neanche di babysitter. Nell’articolo si parlava di una legge, la 1204/71, e la successiva 53/2000, che vieta il licenziamento in maternità e fino al compimento del primo anno del bambino, determina il diritto all’astensione obbligatoria e facoltativa, alla retribuzione e all’allattamento. Non è in discussione se una donna che diventa madre abbia o meno diritto a lavorare, ma questo è un evidente caso in cui la legge è arrivata in anticipo sulla consapevolezza sociale. Questa legge viene continuamente disattesa, ignorata, calpestata. Con la complicità di migliaia di donne che sottostanno al modus vivendi del sistema lavorativo italiano. Che accettano tre mensilità, forse ignorando che ne spettano diciotto, per dare le dimissioni. Che non sporgono denuncia, non aprono vertenze, non protestano, non si uniscono per fermare la prepotenza di chi ha come unico scopo il solo proprio personale profitto economico. Che sono state capaci di rivendicare la gestione di un utero ma non sono altrettanto consapevoli dell’esercizio dei propri diritti, come se le donne, per prime, si identificassero piuttosto come ovaie che come persone. In Francia oltre il 70% delle donne lavora, prima e dopo il primo, il secondo e non raramente dopo il terzo o quarto figlio. Questo permette alle nostre cugine d’oltralpe un maggiore potere economico, un più consistente rilievo sociale, la possibilità di un ruolo determinante nella gestione della famiglia e dello Stato. Questo significa anche avere il potere necessario a pretendere servizi congrui, come asili nido e scuole aperti fino alle 18,30, babysitter convenzionate col Comune e disponibilità di un giorno lavorativo alla settimana, interamente retribuito, da dedicare alle incombenze familiari e casalinghe. Se le maestre scioperano, i genitori non protestano perché non sanno dove mettere i figli, ma scendono in piazza a fianco agli insegnanti. Il comune restituisce 1 euro e 20: il costo della mensa per il giorno in cui i bambini non hanno potuto usufruire del pasto. Inutile pensare di combattere una battaglia se prima non si addestrano i soldati. Questo è quanto devo amaramente concludere riflettendo sulle polemiche innescate da un articolo che, al limite, avrebbe dovuto infastidire i miei ex datori di lavoro, e non scatenare battibecchi dell’anteguerra sulla giusta cura della casa e il galateo della buona madre di famiglia. La legge è fatta, ora bisogna fare le italiane.
L’Unità 18.05.10