C´è qualcosa che colpisce più ancora della ampiezza dei fenomeni di corruzione venuti alla luce o della pervasività del «sistema», per dirla con l´onorevole Denis Verdini. Colpisce soprattutto che il «sistema» abbia potuto rimodellarsi negli ultimi quindici anni in un silenzio quasi assoluto.
Per molto tempo la politica e la società italiana avevano rappresentato – in primo luogo a se stesse – i guasti degli anni ottanta e novanta come un´anomalia sostanzialmente conclusa. E, progressivamente, come una vicenda ampiamente esagerata dalla faziosità dei giudici e da una cultura moralistica arcaica. In questo modo alla fine del 2008, di fronte al moltiplicarsi di nuove indagini che coinvolgevano anche il centrosinistra, sembrarono prevalere le reazioni che un titolo sintetizzò: Mani Pulite 2? No, grazie. Soprattutto, continuò una forte sottovalutazione della corruzione presente nel paese. Eppure in quello stesso periodo la Corte dei Conti valutava che la sua entità sfiorasse i 60 miliardi di euro, cifra molto più alta rispetto agli anni di Tangentopoli. Nel 2009, poi, le denunce per corruzione aumentarono del 230% e quelle per concussione del 150%: sono ancora dati della Corte dei Conti, resi pubblici il 17 febbraio di quest´anno. Cioè a 18 anni esatti dall´arresto di Mario Chiesa e dall´avvio di Tangentopoli, e mentre già le cronache e le intercettazioni stavano disegnando un panorama inquietante. Caratterizzato però da tratti nuovi rispetto al passato, anche se ad esso ci ha riportati la mazzetta di un politico milanese nascosta in un pacchetto di sigarette.
C´è dunque da interrogarsi meglio sulla coltre di silenzio che ha velato per anni il rimodellarsi del fenomeno, e anche sulle caratteristiche dei processi in corso. Già nel dicembre del 2008 Roberto Saviano rifletteva su La corruzione inconsapevole che affonda il paese e ne coglieva un tratto di fondo: nessuna delle persone indagate «aveva la percezione dell´errore, tantomeno del crimine (…). Cosa potrà mai cambiare in una prassi quando nessuno ci scorge più nulla di sbagliato o di anomalo»? Ne coglieva al tempo stesso il terreno di coltura: la corruzione si estende «quando la politica si accontenta di razzolare nell´esistente e rinuncia a farsi progetto e guida». In altri termini, come annotava poco dopo Piero Ottone ancora su questo giornale, quando viene a mancare la «religione civile»: che può nutrirsi di ideali di progresso o di conservazione ma è, appunto, concezione alta della politica.
Sono passati poi altri mesi e sono venuti alla luce contorni ancor più laceranti di un fenomeno che si è rimodellato sostanzialmente attorno a due cardini: da un lato la sostituzione del «rubare (soprattutto) per il partito» degli anni di Tangentopoli con il «rubare per sé»; dall´altro una eversione delle regole che non si è radicata solo in pratiche anomale o marginali ma all´interno di quella «pratica dell´emergenza» e di quella «politica del fare» che sono state erette a bussola e a bandiera.
Sul primo versante i dibattiti degli anni novanta sono ormai un ricordo sbiadito. Certo, continua ad apparirci indecente il tentativo di assolvere chi almeno «rubava per il partito» (ignorando che in questo modo la corruzione metteva a rischio lo stato di salute della democrazia) ma lo squallore che le intercettazioni portano oggi a galla non ha forse paragoni con il passato. Esse rivelano in realtà un rovesciamento più generale: il «rubare per sé» è così diffuso perché il «primato del sé» ha sostituito «il primato del partito» in una cultura che si è diffusa ben oltre la vita pubblica. Il degrado attuale della politica ci appare dunque non solo causa – come avvenne negli anni ottanta – ma in qualche modo anche conseguenza del trionfo dell´antipolitica. Una antipolitica che è andata al potere.
A questo stesso nodo rimanda un altro corposo «slittamento» rispetto agli anni di Tangentopoli. Allora ci si illuse – ci si volle illudere – che i guasti fossero annidati solo in un degenere ceto politico e che una virtuosa società civile ne fosse del tutto immune. In taluni interventi di oggi, all´opposto, sembra trasparire la tentazione di considerare il Palazzo come corrispettivo quasi inevitabile di una società civile irrimediabilmente perversa. Obbligato in qualche modo ad assecondare il flusso per non perdere consensi. Appaiono così fastidiose «anime belle» coloro che segnalano le responsabilità specifiche della politica: l´abdicazione a una selezione reale della classe dirigente, l´assenza di adeguate misure correttive, la delegittimazione della magistratura, le scelte relative a esenzioni, prescrizioni e condoni, le leggi ad personam, e così via.
Il secondo aspetto centrale dello scenario che si è delineato sta poi nel suo rapporto con alcuni cardini dell´azione del governo. Com´è noto, nulla di ciò che è stato pubblicato sarebbe venuto alla luce se fossero stati già approvati i vincoli alle intercettazioni voluti dalla maggioranza. E solo lo scandalo ha affossato una legge che avrebbe regalato alla Protezione civile una specialissima immunità. Era il corollario minore ma simbolico di un progetto di presidenzialismo che si accompagna all´indebolimento drastico dei controlli, delle regole e delle garanzie: questa è la reale posta in gioco, e i tempi della partita si stanno accorciando.
Negli anni di Tangentopoli un intellettuale e poeta civilmente impegnato come Giovanni Raboni scriveva: c´è qualcosa che mi impedisce di esultare per la giustizia finalmente all´opera, ed è «un pensiero sordo e odioso come certi dolori: e noi, nel frattempo, dove eravamo?». Forse il centrosinistra nel suo insieme dovrebbe porsi oggi la stessa domanda.
La Repubblica 18.05.10
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