DUNQUE abbiamo appena ripassato la storia: nella notte fra il 5 e il 6 maggio 1860, 1070 volontari garibaldini s’ imbarcarono a Quarto lasciando famiglia lavoro e studi per andare a Sud a fare l’Italia. E abbiamo appena rifatto la storia: nei giorni tra il 5 e il 6 maggio 2010 un migliaio di giovani del Sud sono andati a Nord.
MAGARI la cifra esatta sarà incisa nel bronzo fra 150 anni. Ce ne sono 300 mila all’anno, fra definitivi e pendolari, che hanno lasciato famigliae studi per cercare lavoro. I numeri contano, non solo per l’ effetto simbolico, e non solo per replicare alla fantasia delle cifre berlusconiste.
C’è un’ emigrazione dal Sud al Nord che rinnova le proporzioni degli anni ‘ 60. “Contare, prima di raccontare”: è il programma del libro di Luca Bianchi e Giuseppe Provenzano (“Ma il cielo è sempre più su?”, Castelvecchi). Del resto, “è una storia che nel Mezzogiorno tutti raccontano. E meglio degli altri, le nonne, le madri. La storia di figli che partono, di madri che preparano valigie e pacchi di conserve, di telefonate una volta al giorno, alla sera. Di famiglie che si rivedono una o due volte l’anno, d’estate e a Natale, dieci giorni al mare e dieci giorni a svernare”.
Tra le due Italie – le chiamiamo ancora così, vero? – questo è lo specchio più eloquente: il Nord che attira il Sud (i Sud, anche gli stranieri) e il Sud da cui si fugge o si è cacciati (o recintati, come a Rosarno). Anche quando non si usasse più lo stesso nome, come già fanno gli irredentisti padani, resterebbe il nome comune di Europa. Ma proprio guardando all’Europa la differenza risalta di più, perché il Nord è fra le regioni più ricche e il Sud fra le più povere. Nel 2005, la Lombardia ha il 136 per cento del Pil medio pro capite dell’ Europa, il Meridione il 62 per cento. (E peggiora: 10 anni prima superava il 69 per cento).
Oggi, il Sud non è ricco nemmeno di nascite. Le donne del Nordest fanno più figli di quelle meridionali. La natalità più bassa in Italia è della Sardegna e della Basilicata. Calabria, Basilicata, Puglia, Campania e Molise hanno da anni un saldo demografico negativo o stagnante. Al Nord, il calo demografico è compensato dall’immigrazione, al Sud no. Ad andarsene dal Sud sono soprattutto i giovani laureati, e quelli con gli studi e i voti migliori. Sono le prime file della “modernizzazione” del Sud – anche civile, contro le mafie, il pizzo – e insieme i più espulsi da una società “pietrificata”. Non è vero forse il contrario, che i “migliori” vanno a cercare altrove la propria realizzazione? No, se la fuga è la loro unica occasione di mobilità sociale. Vuol dire che i giovani del Sud hanno studiato solo per emigrare, salvo affidarsi allo stato di famiglia e di clientela, la vecchia e la neoborbonica dei “partiti del sud” vagheggiati per fare il verso alla Lega e andare alla deriva opposta. Ed è qui che bisogna passare dal conto al racconto – parola, come il sinonimo narrazione, così frequentata da Vendola. Un “sogno a occhi aperti, magari, un sogno che faccia i conti con la realtà, con la politica dell’ irrealtà di cui parlava Guido Dorso: la realtà che supera le contingenze”. Indicando le “tracce di una nuova questione meridionale”, i giovani autori denunciano rimozione e disprezzo per un Mezzogiorno “ingabbiato” nel suo passato, e lasciato in preda ad avventurieri politici, intermediatori da retrobottega, o eterni aspiranti masanielli. L’idea di fondo è quella di una “generazione sequestrata”, e con essa il futuro del Sud. Nella critica feroce alle classi dirigenti meridionali – fin troppo “radicate” nel loro territorio… – autrici di questo sequestro, sono amaramente comprese quelle di centrosinistra. Ottimi dirigenti politici trasformati in professionisti della spesa pubblica, ripiegati nel mito del localismo, hanno finito per utilizzare gli investimenti più per alimentare e consolidare un consenso territoriale che per rompere gli interessi al mantenimento dello statu quo.
Interessi ora rinsaldati – per fortuna, solo fortuna, con contraddizioni interne – in un “blocco sociale dominante” all’insegna dell’alleanza tra Pdl e Udc che ha tinto del proprio colore un Sud che arriva dalla Sicilia a Roma. C’è, dicono gli autori, un peccato originale del Pd, e prima di Ds e Margherita, nel lasciar proliferare oligarchie locali stabilendo tutt’al più rapporti di reciproca non interferenza. “Troppi leader, all’ indomani di ogni scandalo che ha a che fare con la politica al Sud, pontificano sul degrado del costume politico meridionale, e ricordano la donnaccia a cinque franchi che Baudelaire portò al Louvre e che si scandalizzava per le oscenità esposte”.
Può essere il federalismo la chiave di volta nazionale, un messaggio che valga da Palermo ad Aosta? Può darsi, ma con due avvertenze. Dove lo Stato unitario ha fallito, non è servito il regionalismo, che anzi al Sud ha fatto registrare un magrissimo bilancio, alimentando rendite legate alla spesa pubblica e facendo smarrire la dimensione macroregionalee mediterranea delle sfidee delle opportunità cruciali per il Mezzogiorno. Al punto in cui è ridotto il Paese, il termine “federale” dovrebbe riprendere l’ accento originario: tendere verso ciò che unisce e tiene insieme. Altrimenti l’ accento secessionista scivolerà dalle regioni alle divergenze di province e comuni, e tifoserie ed etnie e gruppi e bande e famiglie, che l’ ideologia del “territorio” maschera a fatica. Ma il messaggio nazionale può misurarsi proprio con le scelte compiute dai padri di oggi – “che amano i propri figli a dismisura (oltre il buon costume, oltre le regole), ma che non si curano mai dei figli degli altri, dei giovani in generale”. Sull’ economia, sul welfare, sull’ ambiente, sulle scelte urbanistiche, la lettura generazionale indica un’ altra rotta. Di un cambiamento che non solo è necessario ma, nel Sud dei garibaldini alla rovescia che fuggono e giurano di non tornare più, al punto in cui siamo, perfino “conviene”. La riscoperta del Sud – dov’ è una così forte mobilità di voto, che fa vincere e perdere le elezioni – alla vigilia delle celebrazioni per l’ Unità, può essere un’ occasione importante, ma porta con sé i rischi impliciti in ogni riscoperta: il riaffiorare di retoriche inservibili, o di una moda di stagione destinata presto a svanire. Il Sud è più che mai luogo di complessità. La molteplicità dei problemi impone agli attori pubblici di “sporcarsi le scarpe”, come diceva Manlio Rossi Doria. Questa pluralità, con punte di miseria e sottosviluppo e altre di innovazione e modernità, non può far rinunciare alla categoria “Mezzogiorno”. Il declino del meridionalismo coincide col declino della sinistra, ed entrambi con l’ eclisse dell’ idea dell’ uguaglianzae della tensione alla solidarietà. La deriva localistica e separatista rischia di deflagrare con la crisi (economica e sociale, ma anche politica) – perché nei naufragi non è detto che prevalga la solidarietà,e più spesso prevale il cannibalismo. Dopotutto, la lezione più smaccata dei 150 anni non può che essere questa: che l’ Italia si fece, ed era molto improbabile, e può disfarsi, ed è diventato quasi probabile. A questo punto si passi a un altro libro, Giorgio Ruffolo, “Un paese troppo lungo. L’ unità nazionale in pericolo”. Lì si ricapitola la storia, e anche la battuta di un vecchio professore estremista: “Nord alla Lega, sud alle mafie”.
da www.repubblica.it