Fieri di appartenere alla comunità nazionale anche se spesso pronti a considerare il Sud un peso. L’Italia si presenta ai 150 anni dell’Unità con molte contraddizioni ma con un’identità. Costruita soprattutto intorno all’attaccamento ai familiari e all’arte di arrangiarsi. Ecco perché, nonostante le tensioni, continuiamo a sentirci cittadini dellostesso Paese. E perché rischiamo di scoppiare.
Ci si avvia al 150esimo anniversario dell’unità nazionale fra molte divisioni. Tanto che alcuni fra i più autorevoli componenti del Comitato dei Garanti per le celebrazioni si sono dimessi. Per primo: Carlo Azeglio Ciampi, il Presidente della Repubblica che, nel corso del suo mandato, ha investito sulla riaffermazione delle feste e dei simboli nazionali. Un atteggiamento che non pare condiviso dalla maggioranza di governo. Nella Lega, soprattutto. I cui leader, a partire da Bossi, fanno a gara nel sottolineare che c’è poco da celebrare. Che, per i padani veri, l’unità d’Italia anzi: l’Italia stessa non merita di essere celebrata. Così, ci si avvia a questo 150enario in modo dimesso e reticente. Un po’ come l’atteggiamento degli italiani verso l’Italia, descritto da un sondaggio di Demos per Repubblica. Difficile da interpretare in un solo modo. Tratteggia un popolo di “italiani a metà”. Visto che, fra le diverse appartenenze territoriali, il 28% sceglie, anzitutto, l’Italia (comunque, in crescita di 5 punti rispetto al 2006). Il resto: cosmopoliti (27%) e localisti (45%). Dunque, veneti, siciliani, lombardi, napoletani, nordisti “e” – non “o” – italiani. Visto che quasi tutti (l’88%) si dicono (molto o abbastanza) “orgogliosi” della propria appartenenza nazionale. E quasi tutti (l’84%) considerano “positiva” (il 24% “molto”) l’Unità d’Italia.
Italiani a metà. Perché, tuttavia, il 30% di essi considera il Sud un peso. Il 41% nel Nordest, ma il 24% anche nel Mezzogiorno. Cittadini di un paese diviso. Non solo dal punto di vista territoriale, ma – lo sappiamo bene – anche politico. E civile. Perché lontani dalle istituzioni e dallo Stato. L’orgoglio nazionale, infatti, appare incardinato su elementi extra-civili e pre-politici. La bellezza del paesaggio, il patrimonio artistico e culturale, la moda e la cucina. Mentre gli elementi che specificano gli italiani rispetto agli altri popoli, secondo gli italiani stessi, evocano il “carattere nazionale”: l’attaccamento alla famiglia e l’arte di arrangiarsi, sopra tutti gli altri. (Come abbiamo messo in luce anche su liMes, in altri scritti). Seguiti dalla “creatività” – nell’arte e nell’economia. Perché l’arte di arrangiarsi è, in fondo, un’arte. Evoca la capacità di innovare e di inventare. Gli italiani. Familisti, imprenditori, localisti, artigiani e artisti. In fondo alla graduatoria dei caratteri che li distinguono dagli altri popoli, non a caso, pongono la fiducia nello Stato e il senso civico. Mentre, fra gli avvenimenti che hanno modernizzato la Repubblica, al primo posto, indicano la “ricostruzione economica degli anni 50 e 60”. La stagione nel corso della quale il nostro paese conquistò, faticosamente, lo sviluppo e il benessere. Quando gli ultimi dell’Occidente risalirono fino ai primi posti. E si guadagnarono un po’ di rispetto dagli altri. Non più soltanto mafiosi, poveracci ed emigranti. Ma lavoratori e imprenditori.
“Italiani a metà”, però, non significa solo “divisi”, ma anche ambivalenti e contraddittori. Perché, dopo la “ricostruzione”, tra i fattori di modernizzazione della Repubblica, collocano lo “statuto dei lavoratori” e il “referendum sul divorzio”. Avvenimenti che segnarono una stagione di mutamento sociale e civile profondo. E, tra i motivi che alimentano l’orgoglio nazionale, il 50% indica la Resistenza e il Risorgimento, il 43% la Costituzione (un orientamento in crescita di 7 punti percentuali rispetto al 2008). Quasi come lo sport e la Nazionale (ma, in questo caso, pensiamo che si tratti di una risposta reticente. Mentre quasi due italiani su tre ammettono la loro soddisfazione (non andiamo oltre…) di fronte al Tricolore e all’inno nazionale.
Insomma, gli italiani sono divisi, non solo dal punto di vista politico e territoriale, ma anche personale. Incoerenti anche di fronte a se stessi. In grado di manifestare malessere verso il Sud, fino ad auspicarne l’espulsione dal Paese. Oppure, identificati nel loro piccolo mondo, nella loro piccola patria locale: città, regione, Padania, Sud. E ancora: sfiduciati verso lo Stato, disillusi nei confronti delle istituzioni. Rassegnati al proprio – patologico e storico – deficit di senso civico, rimpiazzato e compensato da un senso “cinico” dilatato e dilagante. Le stesse persone che si dicono orgogliose di essere italiane. Convinte che l’Unità sia una conquista positiva. Solo una minoranza minima (15%) sostiene che dividere Nord e Sud sia un obiettivo utile, da perseguire.
Gli stessi italiani raccolti intorno al Presidente Napolitano, guardato con fiducia da oltre 7 cittadini su 10. Come Ciampi, prima di lui. Prova che, se lo Stato è lontano, se il Paese è diviso, c’è grande bisogno di riferimenti e di istituzioni comuni, in cui riconoscersi “insieme”. Ciò induce a leggere diversamente anche fenomeni che hanno assunto grande ampiezza e importanza crescente, come il voto alla Lega. Il cui significato è, anch’esso, in-coerente. E non può essere assimilato, in modo automatico, ai proclami e alle parole dei leader padani. Visto che 2 leghisti su 3 considerano positiva l’Unità d’Italia e 8 su 10 si dicono “orgogliosi” di essere italiani (il 52%: “molto”). D’altra parte, basta pensare all’Adunata Nazionale degli Alpini, ieri. Centinaia di migliaia di penne nere confluite a Bergamo, nel cuore di una zona leghista. Gli alpini, al cui interno le simpatie leghiste non sono poche (basta citare l’esempio di Gentilini, prosindaco di Treviso e “alpino doc”). Sfilano, orgogliosamente, dietro al Tricolore. Accompagnati da inni patriottici.
Un altro segno di questo Paese di italiani a metà. Che, proprio per questo, potrebbe non restare tale, a lungo. Dipende dal modo di rappresentarli – e di governarli – espresso dagli attori politici. Dalle istituzioni. Potrebbero cambiare. Divenire, finalmente, una “nazione” (per echeggiare Gian Enrico Rusconi). Oppure degradare ancora. Rinunciare del tutto alla loro identità nazionale. Al residuo di civismo che ancora esprimono. Gli “italiani a metà”: potrebbero ridursi a “mezzi italiani”. Per citare Edmondo Berselli: post-italiani. Non-cittadini di un paese provvisorio.
La Repubblica 10.09.10