cultura

"Ultima chiamata per salvare la lirica", di Sandro Cappelletto

Oggi, finalmente, l’onorevole Sandro Bondi, ministro dei Beni e delle Attività Culturali, incontra i sindacati che rappresentano i circa seimila dipendenti dei principali teatri d’opera italiani. Sapremo così se la febbre degli ultimi giorni, altissima, comincerà a scendere, oppure se la salute del malato verrà giudicata ormai compromessa. La condizione è patologica, da molti anni: su questo punto le parti concordano. Ed è un ottimo punto di partenza, perché se è così – ed è così – allora non c’è più tempo da perdere.

Il ministero sostiene che le condizioni contrattuali attuali consentono una serie di privilegi senza eguali al mondo e di sprechi che la nostra economia non può più tollerare; inoltre, la produttività è troppo bassa. I lavoratori, e si tratta per la grande maggioranza di professionisti ad altissimo tasso di specializzazione, replicano che in nessun altro Paese l’erogazione dei contributi pubblici è, ogni anno, occasione di un simile stress mediatico e sostanziale: si taglia, non si taglia, del trenta, del venti, del dieci, no del quindici, poi forse si reintegra… E, a proposito dei contestati contratti, precisano che gli accordi si firmano sempre in due: se io chiedo la luna e tu me la porti, significa che potevi farlo. E io lo so.

Ecco un secondo punto di concordanza: nessuno, nemmeno l’ala più liberista dell’attuale governo, sembra mettere in discussione la necessità dell’intervento pubblico a sostegno della lirica. E’ infatti chiaro che senza questo finanziamento – negli ultimi anni sensibilmente diminuito – i teatri d’opera chiuderebbero domani: il sistema produttivo della lirica ha costi alti e incomprimibili, che il solo mercato non è in grado di coprire. Soltanto negli Stati Uniti le sovvenzioni private superano quelle pubbliche, che pure esistono. Ma la normativa fiscale è estremamente favorevole allo sponsor e da parte dei mecenati gioca anche l’orgoglio, molto americano, di dire: «Questa Traviata va in scena grazie ai miei dollari».

Pochi giorni fa il maestro Riccardo Chailly, oggi alla guida dell’orchestra di Dresda, in un’intervista a La Stampa ricordava che la necessità dell’esistenza di una vita musicale e di teatri d’opera eccellenti non è, in Germania e nonostante tutte le crisi, un dato negoziabile. Perché lì esistono delle regole condivise.

Ecco il punto: le regole del gioco, da noi, non sono altrettanto chiare. Non sono così condivisi i reciproci diritti e doveri. Dopo aver seguito le vicende della musica da giornalista e da critico, la recente responsabilità artistica dell’Accademia Filarmonica Romana, nata nel 1821, anche per impulso di Gioachino Rossini, robusta di esperienza sotto monarchie e repubbliche, regimi democratici e no, oggi anch’essa finanziata dall’intervento pubblico, mi ha consentito di conoscere i problemi da un diverso punto di vista. Quante incertezze, quanti dubbi, quanta complessità, al di là della dedizione di tanti funzionari ministeriali e «operatori dello spettacolo», nell’interpretazione delle normative. Quanto tempo sottratto al pensare, creare, offrire al pubblico musica, teatro, spettacolo. E quanti costi. La semplificazione normativa non potrà mai abitare anche qui?

Luciano Berio ha scritto che una compagine musicale è «uno strumento la cui dialettica tra individualità e umanità, fra autonomia e omogeneità, sembra porsi come il paradigma di una società ideale». Le parole di un maestro devono aiutarci a ritrovare il bandolo della matassa. Magari cominciando da oggi, per non essere costretti a dare definitivamente ragione a Federico Fellini e alla collettiva catastrofe della sua Prova d’orchestra.

La Stampa 06.05.10

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