Non va sottovalutato il valore simbolico e politico delle affermazioni del ministro della Repubblica Roberto Calderoli. Non va sottovalutato il segnale che danno al Paese, proprio perché quel segnale viene dalla forza di governo che appare di gran lunga la più compatta, e sempre più determinante all´interno della coalizione.
Certo, anche nelle celebrazioni del 1911 e del 1961 non erano mancati momenti polemici, alimentati dalle forze intellettuali e politiche che si sentivano in qualche modo ai margini del processo (repubblicani, socialisti e cattolici, nel 1911), o non si riconoscevano per intero nell´orizzonte culturale che improntava le celebrazioni (e che risentiva ampiamente, nel 1961, dell´egemonia politica della Democrazia Cristiana). Erano momenti di riflessione – talora anche segnali di delusione, come già nel 1911 – che dialogavano con un´impostazione “forte” e prevalente delle celebrazioni e dell´identità: non ne mettevano in discussione le fondamenta né la svilivano. Erano, insomma, posizioni nobili. Avevano a che fare con un´idea alta di nazione, facevano parte a pieno titolo di quel confronto culturale di cui le identità si nutrono.
Non è così oggi, e le parole del ministro Calderoli – nel loro non eccelso profilo culturale – appaiono realmente contundenti proprio per questo: proprio perché non si infrangono contro un solido e condiviso muro ideale ma rivelano ancor di più, semmai, la fragilità crescente – pericolosamente crescente – delle barriere che sono state erette. La vicenda stessa delle celebrazioni ufficiali, del resto, ha mostrato più del dovuto quella fragilità. Ha illuminato anch´essa il dramma di un paese che sembra impaurito dal futuro e infastidito dal passato.
La riflessione deve muoversi allora su due versanti. Deve riguardare le dinamiche politiche che queste e altre sortite leghiste possono innestare (poco importa se contraddette o “interpretate” da altre forze del governo), ma anche – e soprattutto – lo “stato della nazione”. Sul primo versante appare in tutta la sua pericolosità il rinsaldato connubio fra l´offensiva leghista – che i risultati elettorali avevano inevitabilmente preannunciato – e una egemonia del premier che da tempo mette sempre più apertamente in discussione i tratti costituzionali essenziali della Repubblica (anche per questo, forse, l´intervento del cardinale Angelo Bagnasco assume un valore particolare e in qualche modo impegnativo anche rispetto al riemergere di umori anti-risorgimentali che nel mondo cattolico non sono mancati).
La pericolosità del connubio fra Berlusconi e Bossi è aumentata a dismisura proprio dallo “stato della nazione”, e il confronto con il 1911 e il 1961 è purtroppo illuminante. Nel 1911 il paese era attraversato sì da contraddizioni sociali e da tensioni anche forti ma si era ormai avviato all´industralizzazione e a forme democratiche meno incompiute: in quello stesso anno, ad esempio, il governo annunciava la riforma elettorale che avrebbe portato di lì a poco al suffragio universale maschile. Si pensi anche al centenario dell´unità nazionale, nel 1961: era celebrato nel pieno del “miracolo economico”, e le euforie del boom nascondevano semmai le contraddizioni pur esistenti, sia nel presente che nel passato.
Oggi, invece, vengono al pettine tutti i nodi di una crisi della Repubblica che aveva avuto la sua incubazione negli anni ottanta e il suo primo esplodere all´inizio del decennio successivo. Superati i momenti più drammatici di quel trauma il paese scelse – nella sua grande maggioranza – di non fare i conti con quei nodi. E quindi di aggravarli. Nel 1993 un bel libro di Gian Enrico Rusconi aveva come titolo Se cessiamo di essere una nazione. C´è da chiedersi se in un prossimo futuro non dovremo ricorrere a un titolo ancor più pessimistico.
La Repubblica 04.05.10
Pubblicato il 4 Maggio 2010