Doveva essere varata per la ricostruzione dopo il terremoto dell’Abruzzo. Ma passati dieci mesi il decreto non è ancora stato approvato. Congelata la norma sul bollino di garanzia anticlan per chi rifornisce i costruttori. «White list», l’avevano chiamata. «Lista bianca», ovvero l’elenco dei fornitori delle imprese di costruzione ai quali le prefetture avrebbero dovuto dare il bollino di garanzia antimafia. Da dieci mesi, quando una legge dello Stato l’ha introdotta, è scomparsa nel nulla e nessuno sa ufficialmente perché. Eppure era contenuta in un emendamento durante la discussione in Parlamento sul decreto per l’Abruzzo, varato dal governo il 28 aprile 2009. Fortissime erano state le pressioni dei costruttori, per i quali il sistema del vecchio certificato antimafia, in generale poco efficace, in questo caso è del tutto inutile.
Come hanno ormai da tempo accertato innumerevoli inchieste giudiziarie, la criminalità organizzata si infiltra nel settore edilizio prevalentemente attraverso il canale delle forniture: materiali di cava, calcestruzzo, bitume, movimenti di terra. Per non parlare dello smaltimento dei rifiuti e delle discariche. Tutte attività sostanzialmente incontrollabili con gli attuali meccanismi, perché riguardano il rapporto diretto fra il fornitore e il costruttore, il quale raramente è nelle condizioni di scegliere: il calcestruzzo e il bitume non possono essere trasportati per centinaia di chilometri, così chi li produce ha il monopolio naturale nell’area di propria competenza.
A forza di insistere, la lobby dei costruttori era riuscita a fare breccia in Parlamento, approfittando anche dell’allarme sulle possibili infiltrazioni criminali che si era sparso dopo il terremoto dell’Aquila. Nel decreto era stato quindi infilata una norma che oltre, a stabilire l’obbligo della tracciabilità finanziaria per tutti i subappalti e le forniture, prevedeva anche la «costituzione, presso il prefetto territorialmente competente, di elenchi di fornitori prestatori di servizi, non soggetti a rischio di inquinamento mafioso, cui possono rivolgersi gli esecutori dei lavori». Secondo il copione tipico di tutte le leggi italiane, l’applicazione di questa norma era stata però affidata a un successivo decreto della Presidenza del consiglio. Da emanarsi, e qui è il primo ostacolo, su proposta di ben cinque ministri: Interno, Giustizia, Economia, Sviluppo Economico, Infrastrutture. Un concerto polisinfonico con ben cinque direttori d’orchestra, che rendeva già irrealistica la previsione un mese, contenuta nella legge, per scrivere le norme di attuazione. Ma di mesi da allora ne sono passati ben nove e di quel decreto nemmeno l’ombra. Né risulta che qualcuno ci stia pensando.
Eppure la «white list» ha fatto capolino successivamente in altri due provvedimenti: la legge sui lavori per l’Expo 2015 di Milano e il piano straordinario per le carceri. E sarebbe stata estesa a tutti i lavori pubblici dal decreto anticorruzione. Peccato che quel decreto, approvato dal consiglio dei ministri in pompa magna il primo marzo, ancora non sia arrivato in Parlamento. A causa, sembra, di alcuni problemini: fra i quali ci sarebbe, appunto, quello della «white list».
C’è chi nel governo avrebbe sollevato questioni di privacy. Chi, invece, sostiene la problematica applicabilità di una norma del genere. A partire dai controlli necessari per compilare l’elenco. Anche se il numero delle imprese che operano nei settori considerati sensibili è di circa tremila, una trentina in media per ogni prefettura.
Altri puntano il dito verso la difficoltà concreta di mettere il bollino antimafia su un fornitore di calcestruzzo o bitume, oppure su una discarica di rifiuti, senza rischiare di scoprire in seguito che quel bollino era finito su una ditta controllata dalle cosche. Più facile allora compilare, anziché una «white list», una «black list»: sarebbe sufficiente scriverci sopra i nomi delle imprese i cui amministratori o azionisti fossero stati condannati. Ma questo sistema non metterebbe i costruttori al riparo delle infiltrazioni: chi potrebbe infatti garantire sulla non mafiosità delle ditte fuori dalla lista nera? Insomma, un cane che si morde la coda. Finché qualcuno non deciderà che è arrivato il momento di assumersi le proprie responsabilità.
Il Corriere della Sera 27.04.10