L’appello del Presidente Napolitano affinché le celebrazioni si svolgessero in un clima di serenità; l’invito del premier Berlusconi a far tesoro della libertà e della democrazia riconquistate con la Resistenza; le sollecitazioni e la speranza dell’Anpi, infine, che le manifestazioni non venissero turbate da tumulti e contestazioni. Tutto inutile. Assolutamente inutile. E così, anche questo 25 aprile – non il primo e probabilmente non l’ultimo – finisce in archivio con un bollettino di incidenti indegno della giornata che ricorda e simboleggia la liberazione dell’Italia dal nazifascismo.
Da Catania a Milano, è tutta un’interminabile teoria di contestazioni, diserzioni e incidenti di piazza e diplomatici. I più seri nella capitale, dove la protesta contro la presenza sul palco della neo-governatrice Polverini è culminata in un tiro al bersaglio contro il presidente della Provincia, Zingaretti, colpito da un limone in pieno volto.
Ma aspra è stata anche la contestazione subita, a Milano, dal sindaco Moratti e dal presidente della Provincia, Podestà. Nel capoluogo lombardo, il presidente della Regione, Formigoni, ha addirittura disertato la manifestazione di piazza Duomo con una motivazione che la dice lunga sul clima che si va radicando nel Paese: «Non sarò al corteo per la stesso motivo per il quale il Presidente Napolitano ha preferito commemorare la Liberazione con il momento di sabato alla Scala…».
Protagonisti delle contestazioni – che a Milano non hanno risparmiato nemmeno reduci dei campi di Auschwitz e Treblinka – giovani dei centri sociali e militanti della sinistra più radicale. «Chi semina vento, raccoglie tempesta», ha accusato il leader nazionale dei giovani del Pdci, giustificando – se non rivendicando – l’aggressione di cui sono stati fatti oggetto i presidenti Polverini e Zingaretti. E se non si capisce bene quale vento abbia seminato il presidente Zingaretti, davvero si fa fatica a cogliere il senso di una tempesta (di limoni, insulti e mandarini) in un giorno così.
Da più parti si sottolinea ormai con allarme e frequenza quasi quotidiana il fatto che il Paese stia perdendo coesione sociale. Significa che, dopo l’aggravarsi delle diseguaglianze economiche e il radicarsi di sempre più evidenti divisioni territoriali (tra Nord e Sud) l’Italia rischia di smarrire perfino quel minimo comun denominatore indispensabile a farne un Paese unito. Bisogna dire che la giornata di ieri, con provocazioni e incidenti del tutto inaccettabili, sembra esser appunto arrivata a confermare la fondatezza di quell’allarme.
Eppure era stato fatto di tutto per evitare che anche questo 25 aprile si trasformasse in una giornata da dimenticare. Sabato, a Milano, il Capo dello Stato aveva svolto un discorso tutto centrato sulla necessità di uscire da contrapposizioni pregiudiziali in nome di un’unità d’intenti capace di favorire lo sviluppo del Paese. E ieri Silvio Berlusconi è entrato nelle case degli italiani con un intervento dai toni unitari e pacati, con espliciti inviti alle forze di opposizione affinché partecipino alla riscrittura della seconda parte della Costituzione e non si tirino indietro rispetto all’annunciato processo di riforme istituzionali.
Tutto inutile, come dicevamo. Quel che resta – quel che anzi si rafforza – è infatti una incomunicabilità, una separazione che pare crescere giorno dopo giorno. In molti casi (Milano, Catania, Salerno, Bergamo…) sindaci e presidenti del centrodestra hanno addirittura preferito disertare le celebrazioni del 25 aprile temendo – come purtroppo in molte città è poi accaduto – polemiche e contestazioni. E’ un segnale quanto mai allarmante, perché l’idea che una parte politica (e quindi una parte del Paese) finisca per essere o per sentirsi esclusa da una giornata che – come ha ricordato Napolitano – è anche quella della riunificazione, ecco, tale circostanza non può che esser considerata foriera di divisioni ancor più profonde. Ci potrà guadagnare, forse, qualche «rivoluzionario» di professione. È assai più difficile, al contrario, che possa venirne una spinta positiva e in avanti per il Paese.
La Stampa 26.04.10