Ritorna, stavolta nei Tascabili Einaudi, la storia di I miei sette figli raccontata tramite altri da Alcide Cervi, il vecchio contadino emiliano che vide i figli trucidati dai repubblichini perché antifascisti, perché oppositori, perché resistenti. Queste memorie hanno una storia singolare, in qualche modo “sovietica”, ispirata da alcuni articoli del giovane giornalista comunista Italo Calvino, che aveva scritto da poco le sue memorie partigiane in un esordio letterario singolare perché a cavallo tra realtà e fiaba, Il sentiero dei nidi di ragno.
Calvino visitò più di una volta la casa dei Cervi, dove il vecchio Alcide aveva ripreso con la moglie Genoeffa, dopo il lutto, a guidare una famiglia di nuore e di nipoti bambini o adolescenti. Sulla storia dei Cervi, coronata da medaglie al valore, esaltata dal presidente De Nicola e da Piero Calamandrei, il Partito comunista pensò di costruire una narrazione esemplare che Togliatti indirizzò secondo le linee del partito di allora: recupero di una tradizione nazionale, per una forte vicenda che esaltasse la Resistenza come base su cui costruire la nuova Italia. Anche (o perché) la storia dei Cervi era di fondo cattolico e socialista, e contadina invece che operaia.
Luciano Casali racconta molto bene nella prefazione al libro come esso sia nato, commissionato a Renato Nicolai, giornalista di Botteghe Oscure, dal partito (e di fatto supervisionato dallo stesso Togliatti). Il libro di “papà Cervi” vendette in pochi anni quasi un milione di copie, anche perché il partito ne approntò un’edizione economica a cinquanta lire, quella che conservo gelosamente da una vita. Nel 1971 un ignoto censore “ripulì” malamente il testo dai rimandi a Stalin e all’ideologia della guerra fredda, ma quella che Casali propone è l’edizione originale, che seguiva le logiche di quei tempi, è quella che un mucchio di italiani hanno letto e sulla quale si sono commossi, ricavandone tutto sommato una lezione di vita – quella della famiglia Cervi travolta dalla storia e punita per i suoi ideali – pulita e sempre valida.
In questi ultimi anni, sulla scia del grande saggio di Claudio Pavone sulla Resistenza come guerra civile, tanti saggi e studi importanti hanno analizzato gli anni di guerra secondo canoni non partitici ma appunto storici, ristabilendo verità, rifuggendo le mitificazioni e le mistificazioni venute anzitutto da parte comunista. E sappiamo quanto di questo ci sia ancora bisogno, perché l’aura della “guerra civile” ha sempre continuato a pesare su questo paese e, anche se oggi dormiente, potrebbe tornare a pesare.
Avendo un’età, è capitato anche a me di incrociare il vecchio Cervi. Cerco di raccontarne l’occasione più forte nel modo più limpido possibile. Avevo diciannove anni compiuti o da compiere. Era il 1956 (o il 1955? non so dirlo con precisione), e nell’enorme cinema Adriano di Roma si celebravano i dieci anni di qualche grande evento del dopoguerra. Fuori c’era un mucchio di polizia, perché la Resistenza non era affatto di moda e Scelba abbondava in celerini. Di coloro che stavano sul palco ricordo perfettamente Calamandrei, Parri e, seduto vicino a lui, il vecchio Cervi, le sette medaglie al petto.
A un certo punto da una delle prime file si alzò un giovane – un fascista – e lanciò contro Parri un involto o un barattolo di vernice, prendendolo in pieno. Nel clamore generale, restai con gli occhi incollati a Parri, e vidi Alcide Cervi estrarre da una tasca dei pantaloni un fazzolettone di quelli dei contadini di una volta e pulire metodicamente, affettuosamente Parri della vernice che gli aveva imbrattato la giacca e la chioma. Quel gesto fraterno o paterno di un vecchio nei confronti di un altro, mi commosse alle lacrime e mai l’ho dimenticato. (Non so se esistono foto di questa scena, che avrebbe meritato di diventare famosa, ma in sala di fotografi ce n’erano certamente e sarebbe bello che qualcuno le ritrovasse.)
Questa storia ebbe per me un breve seguito, che non sto a raccontare perché ne fu questo il fulcro e l’ammaestramento. Quel che voglio dire, infatti, è che nonostante tutte le complicate, contorte, tragiche vicende degli anni della Resistenza e di quelli immediatamente successivi, le mille storie di dimenticanza o di vendetta, e nonostante le divisioni interne e le manipolazioni storiografiche (il libro più bello e più chiaro su quegli anni è per me Un’amicizia partigiana di Giorgio Agosti e Dante Livio Bianco, Bollati & Boringhieri, e sul piano letterario Il partigiano Johnny di Fenoglio, Einaudi: tre non comunisti) la Resistenza è il momento più degno e glorioso della nostra storia del Novecento, e con quella storia bisognerà sempre fare i conti, e sempre da essa ripartire.
L’Unità 25.04.10