In quello stesso spazio televisivo dov’era nato sedici anni fa il “miracolo” berlusconiano, ieri si è scatenato l’inferno del Cavaliere: il numero due del Pdl, cofondatore del partito e terza carica dello Stato, che contesta pubblicamente la sua leadership e critica la sua politica, rispondendogli colpo su colpo, chiamandolo per cognome, e poi durante la replica concitata del premier si spinge sotto il palco col dito alzato, negando le accuse e restituendole. Il partito è sotto shock per la ferita inferta in diretta al corpo mistico del leader più ancora che al suo ruolo, per il delitto inconcepibile alla sovranità perenne berlusconiana, per il primo gesto di autonomia e di indipendenza del quindicennio, vissuto non solo come una rottura ma come un sacrilegio. Il Cavaliere, abituato alle apoteosi, resta palesemente senza copione, sotto lo sguardo delle telecamere e degli italiani, in uno psicodramma che è insieme privato e di Stato, come tutto ciò che lo riguarda. I numeri sono tutti dalla sua. Ma il sipario del suo lungo talk show con l’Italia è irrimediabilmente strappato.
Ci vorrebbe infatti Hitchcock, più che qualche scienziato della politica, per spiegare lo spettacolo inedito di ieri, la profondità teatrale della ferita in scena, la tempesta in arrivo sul fondale. I volti, le mani, i gesti, contavano più delle parole, come accade nei rari momenti della verità, quando davvero i nodi vengono al pettine. Qui il nodo è talmente aggrovigliato, e da anni, che può scioglierlo solo la spada. E infatti finirà così. Cozzano insieme, con il fragore spettacolare di ieri, due mondi alleati ma inconciliabili, due figure politiche legate ma divaricate, due uomini che si devono reciproca riconoscenza ma non si sopportano più, e infine e soprattutto, due culture politiche che la velocità del predellino e la cartapesta televisiva non sono riuscite a fondere, perché negli ultimi due anni sono cresciute in direzioni opposte e per questo dovranno separarsi. Una è una cultura conservatrice in senso moderno, repubblicana e costituzionale. L’altra è estremista e rivoluzionaria, proprietaria e post-costituzionale.
Dopo le elezioni regionali, vinte grazie alla Lega, il premier ha fatto capire a tutto il sistema che questo finale di legislatura si giocherà a destra e nel governo interamente sotto il segno della diarchia Bossi-Berlusconi. Fini è escluso, ridotto a un ruolo di comprimario, fuori dall’asse ereditario, estraneo anche alle strategie che preparano il futuro: nessuna riforma interessa in realtà il Cavaliere, il patto con Bossi riguarda esclusivamente il federalismo e la difesa blindata di questa legge elettorale. Tutto il resto, è specchietto per le allodole (o per qualche oppositore perennemente con la mano tesa, abituato a ballare alla musica altrui), paesaggio di comodo per i telegiornali di regime, meccanismo tecnico di divagazione parlamentare, per puntare in realtà alle uniche cose importanti per il Cavaliere, l’eliminazione della par condicio televisiva, il blocco delle intercettazioni, il lodo Alfano costituzionale per fermare definitivamente ogni inchiesta della magistratura. Assorbita An nel Pdl, assorbiti molto più facilmente gli ex colonnelli rivelatisi semplici brigadieri, Fini se non voleva degradare se stesso a colonnello aveva davanti a sé la scelta obbligata di una strada indipendente ed autonoma. Ha deciso di rendersi autonomo, restando nel partito, e questa scelta da sola lacera la ragione sociale del Pdl e dello stesso berlusconismo.
Berlusconi è pronto a rompere con chiunque e quasi a qualsiasi prezzo, pur di affermare la sua sovranità indiscussa: ed è pronto a negoziare con chiunque e a un prezzo ancora più alto, pur di riaffermare il suo comando. Ciò che non può accettare è la lesione continua, visibile e manifesta, del suo busto imperiale, che è il vero simbolo fondatore e imperituro del Pdl, secondo la sua concezione. Ciò che non può reggere è un’opposizione organizzata, pubblica e permanente, che lo ingabbi al di là dei numeri a suo favore in una discussione quotidiana, in una trattativa senza fine, in una contestazione alla luce del sole, ingigantita nel gioco parlamentare e mediatico. Che tortura diventerà, in questo schema, la discussione sul Dpef? Che rischi correranno le spericolate misure sulla giustizia ad uso personale? Che logoramento subirà la potestà suprema del leader unico, obbligato ogni volta ad infilarsi nei corridoi delle notti democristiane dei lunghi coltelli?
Ma sono soprattutto la cultura politica, la natura leaderistica, la simbologia carismatica e vagamente messianica del Cavaliere che risultano incompatibili davanti al gesto di un numero due che stravolge i ruoli, lotta alla pari, punta sull’età e sullo scudo istituzionale, e rovescia il tavolo-altare della beatificazione perenne del Supremo.
Quei gesti di Fini sono l’inferno di Berlusconi, la prova che un’altra destra è possibile, l’annuncio che la democrazia interna può mandare in tilt un partito nato per essere un blocco unico e nient’altro, la promessa di un’alternativa che risolve alla radice il gioco della successione promessa e dell’eternità praticata dal premier.
Ciò che i Bondi ieri hanno visto sul volto del Cavaliere è il dopo-Berlusconi, improvvisamente anticipato ad oggi come in una premonizione televisiva, in un corto-circuito politico ed emozionale (molto più emozionale che politico) senza precedenti. Senza la finzione della calza sulle telecamere, dei finti cieli sui fondali, dei cori egemoni per “Silvio”, l’irruzione della realtà e della verità ha sconvolto il palinsesto del Pdl, rendendo il Cavaliere per la prima volta afasico politicamente, incapace di condurre al suo esito un’assemblea e una giornata giocate tutte di rimbalzo, sui nervi, e clamorosamente senza nemmeno una conclusione politica. Un rovesciamento spettacolare per un leader che da casa interviene addirittura nei talk show, li domina al telefono togliendo la parola a tutti, per dire ciò che vuole, salutare e andarsene con l’ultima parola che conta.
Va visto con rispetto il travaglio del Cavaliere, che alla sua età e dopo tanti successi entra nell’inesplorato della guerriglia politica dentro casa, ipnotizzato da quella crepa che gli scandali estivi di un anno fa, il castello di contraddizioni e di bugie in cui si era avventurato, gli hanno aperto sotto i piedi: che i voti perduti delle regionali hanno allargato, e che Fini ieri ha indicato con quel dito alzato, perché le telecamere metaforicamente la mostrassero agli italiani. E va seguito con attenzione il passaggio spericolato del presidente della Camera, tradito dai suoi che avevano da tempo trovato un padrone e oggi gridano al tradimento, dimostrando che il dissenso in quel partito è un esercizio sicuramente rischioso (vedremo adesso il killeraggio della stampa di famiglia, che già si è distinta per il pestaggio degli eretici e dei critici), probabilmente impossibile.
Fini tenterà di restare nel Pdl parlando alla parte più moderata della destra e del Paese, ma intanto preparerà le sue truppe risicate, perché dovrà andarsene, più presto che tardi. Il Cavaliere ondeggerà tra paternalismo e pugno di ferro, e alla fine romperà definitivamente. Ma non solo con Fini, con tutto. Incapace di reggere, chiederà il giudizio di Dio nelle elezioni anticipate, per riavere dal voto quel che perde con la politica, tentando di andare al Quirinale con il controllo diretto della maggioranza parlamentare, trasformando il populismo nella religione finale: ieri il documento votato dal partito lo dice esplicitamente, quando spiega che il Pdl non è un partito ma un “popolo”, che si riconosce nelle “democrazie degli elettori”, e dunque non può contemplare il dissenso. L’avventurismo sarà la fase suprema, l’ultima, del berlusconismo al potere.
La Repubblica 23.04.10
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“Il fallimento di un’illusione”, di Massimo Giannini
Il fallimento di un’illusione. È l’unica cosa che si può dire, di fronte al duello rusticano che si consuma tra Berlusconi e Fini nella direzione del Pdl trasformata in arena. Chi pensava ad un compromesso doroteo, tra il fondatore e il co-fondatore, non ha capito la portata di questa clamorosa rottura, che a questo punto non è più solo politica, ma è anche fisica. In una sorta di seduta di autoanalisi individuale, ma celebrata collettivamente di fronte alle telecamere televisive e alle agguerrite fazioni del Popolo delle Libertà, il presidente del Consiglio e il presidente della Camera si rivolgono minacce e anatemi, si rinfacciano tradimenti e bugie, si rimpallano accuse e veleni. In un inquietante crescendo di rancori personali e di livori politici, si “sbranano” come belve nel circo mediatico, dandosi in pasto alla platea degli uditori e degli elettori. In sostanza: officiano le esequie del Pdl, almeno nella formula conosciuta dai tempi della “rivoluzione del Predellino”.
Sul piano politico, nessuno dei due fa retromarce. Non le fa Berlusconi, che liquida le istanze di Fini come “questioni di poca importanza”, che “non valeva la pena” sollevare, di fronte a un partito che governa magnificamente il Paese e continua a vincere tutte le elezioni. Non le fa Fini, che rilancia le sue contestazioni al premier su tutta la linea, dall’immigrazione alla prescrizione breve, dall’organizzazione del partito alle scelte sulla Sicilia, dalla sudditanza psicologica nei confronti della Lega al caos delle liste per le regionali. La rappresentazione plastica di questo scontro dimostra l’irriducibile inconciliabilità non solo delle posizioni congiunturali, ma delle ispirazioni strutturali dei due contendenti. Berlusconi parla una lingua, Fini ne parla un’altra. Non sono più neanche due diverse idee della destra, ma sono piuttosto due differenti universi politico-culturali. Da quello che si vede nel feroce lavacro della direzione, non possono coesistere, ma solo confliggere.
Ma la novità è che la frattura avviene anche sul piano personale. Quando ci si parla evocando le categoria del tradimento, della menzogna, della mala fede, del sabotaggio, si supera un confine dal quale è impossibile tornare indietro. E questo succede, tra Berlusconi e Fini. Il primo lo apostrofa, intimandogli di lasciare il suo incarico di presidente della Camera, se vuole continuare nel suo inutile e dannoso “contrappunto quotidiano”. Il secondo gli replica a brutto muso, con un provocatorio “mi cacci?”. Non siamo più alla dialettica tra i leader, ma agli insulti tra le persone. La resa dei conti trascende la validità dei ragionamenti e prescinde dalla contabilità dei numeri.
Non è più importante capire quanto dica il vero Berlusconi, o quante divisioni abbia Fini. Bisogna solo prendere atto che il progetto del Popolo delle Libertà, appunto, è ormai fallito. E non poteva essere che così. Il fallimento era contenuto nel suo atto di nascita, che aveva fotografato subito la distanza ontologica, e incolmabile, tra le due anime del “nuovo” centrodestra. L’illusione che una grande partito moderato e di massa si possa reggere solo sul “centralismo carismatico”, costruita un anno e mezzo fa dal Cavaliere a Piazza San Babila, crolla per sempre nell’Auditorium di Santa Cecilia. Quanto potranno duellare ancora, i due fondatori, in mezzo a queste macerie?
La Repubblica 23.04.10
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“La realtà travolge la finzione”, di Marcello Sorgi
L’incredibile è avvenuto: sotto gli occhi dei telespettatori che seguivano in diretta, il partito di Berlusconi – quello del predellino di Piazza San Babila, il partito di plastica delle grandi adunate, delle «ola» e dei karaoke -, tutt’insieme s’è frantumato. Per la prima volta in tanti anni, Berlusconi e Fini non rispondevano più al copione prestabilito, litigavano veramente davanti a tutti, a un certo punto sembrava pure che stessero per menarsi.
E davanti a questo crudo squarcio di realtà, i ministri che li avevano preceduti con i loro discorsi di propaganda – le realizzazioni del governo, il progresso del Paese, il sogno da non spezzare – d’improvviso parevano, loro sì, pupazzi di cera.
Nessuno avrebbe mai previsto che la politica, quella vera, fatta di passione e di sangue, potesse fare irruzione anche nel Pdl. Così come nessuno avrebbe mai creduto che nel salone dove poco prima Berlusconi assegnava i posti alle comparse – raccomandandosi di riempire le prime file, perché i giornalisti, si sa, puntano le telecamere sempre sulle poltrone vuote – a un certo punto potesse volare la famosa «merda nel ventilatore», proprio quella di Formica ai tempi del vecchio Psi, e a sorpresa si potesse ricreare il clima unico del «catino» dei consigli nazionali Dc, dove il veleno dei capicorrente scorreva tra i sorrisi dei finti amici e la rassegnazione delle vittime predestinate.
Si dirà che l’occhio e la memoria del cronista fanno presto a illudersi su un ritorno impossibile della politica, tradizionalmente intesa, in un partito che rimane proprietà privata del suo leader-padrone, come hanno dimostrato ampiamente i risultati delle votazioni finali e l’umiliazione pubblica del dissidente Fini, tornato a casa con undici miseri voti nella saccoccia. Tecnicamente, quello del presidente della Camera oscilla tra un suicidio politico e il gesto di un kamikaze: se anche sperava, stringendosi attorno alla vita la cintura esplosiva, di cambiare qualcosa, dovrà ammettere che non c’è riuscito.
Ma anche Berlusconi a questo punto dovrà riconoscere di non potersi più considerare il capo carismatico e indiscusso della sua creatura. La sua idea che si discute e si vota, e poi tutti fanno e dicono quel che ha detto chi ha vinto, supera perfino il più autoritario centralismo democratico del vecchio partito comunista. E s’è infranta, quel che è peggio, nella libera rivendicazione del diritto al dissenso, al confronto tra diversi, alla possibilità di rimettere in discussione gli accordi e perfino di perseguire idee sbagliate e destinate a finire in minoranza, tipica dei partiti liberali.
Man mano che l’accartocciarsi della sua ennesima messa in scena si svolgeva sotto i suoi occhi, il Cavaliere – fatto inatteso – trasfigurava anche lui. Sì, quella di Berlusconi – un Berlusconi col trucco disfatto e fuori dai gangheri – non è stata solo la reazione di un padre-padrone, ma anche, miracolosamente, di un uomo e di un leader appassionato, che lotta perché tiene veramente alle sue idee, sa cosa vuole la sua gente ed è pronto a difendere fino allo stremo le sue posizioni.
Dopo quel che è accaduto, certo, è difficile dire come finirà. La previsione più logica è che da separati in casa i due cofondatori non andranno lontano, e presto finiranno a contarsi in nuove elezioni anticipate. A meno che – ma è una scommessa improbabile – non capiscano che quel che è successo, pur con tutto il carico di risentimento che ha lasciato, non è detto per forza che sia negativo. Dopo sedici anni di reality e di politica-spot, l’irruzione della realtà nel tempo di celluloide del partito berlusconiano dovrebbe spingere Berlusconi e Fini a fare i conti con se stessi una volta e per tutte.
La Stampa 23.04.10