Qualcuno si dispera, qualcun altro si spella le mani. Hanno torto, gli uni e gli altri. Nonostante l’apparenza, la decisione della Consulta non è una porta chiusa in faccia alle coppie omosessuali. Il varco che rimane ancora aperto sta tutto nel riferimento alla «discrezionalità del legislatore». Significa che la Corte non si è spinta oltre per non invadere le competenze riservate al Parlamento; ma significa al contempo che la Costituzione non pone alcun divieto verso l’allargamento dei diritti familiari alla tribù dei gay. La prima conclusione suonerebbe ovvia dappertutto, salvo che alle nostre latitudini.
Non è forse qui in Italia che il governo accusa a giorni alterni la Consulta d’appropriarsi di funzioni riservate alle assemblee elettive? Non abbiamo ascoltato mille volte parole arroventate contro i giudici costituzionali comunisti, che sovvertono a colpi di sentenza le scelte del popolo sovrano? Quest’ultima pronunzia ne è la smentita più efficace. D’altronde, quantomeno nel caso di specie, le speranze degli esclusi erano destinate giocoforza a cadere nel vuoto: il diritto al matrimonio omosessuale, per rendersi effettivo, postula infatti un apparato di regole minute (di tecnicalità, come s’usa dire in gergo) che una sentenza non può confezionare. Il tribunale costituzionale lavora su materiali normativi già esistenti, non può sostituirsi ai muratori, né tantomeno agli architetti. E lavora per sottrazione, demolendo questo o quel mattone. Un legislatore «negativo», come diceva Kelsen.
Persino il faro giudiziario dei gay di tutto il mondo – la Corte suprema della California, che nel 2008 sancì il loro diritto al matrimonio – è una prova vivente di tali limitazioni. Laggiù, dieci anni fa, prima una legge e successivamente un referendum definirono il matrimonio come un’unione tra persone di sesso diverso, pur garantendo alle coppie omosessuali gli stessi diritti di quelle coniugate. Dunque una differenza puramente nominale, ma tanto bastò alla Corte americana per castigarla in nome del principio di non discriminazione. C’era una legge, insomma, su cui i giudici calarono la scure. E quando un altro referendum modificò la Costituzione dello Stato, chiarendo una volta per tutte che il matrimonio può celebrarsi soltanto fra una donna e un uomo, gli stessi giudici alzarono le braccia.
E in Italia? Rimane ancora un vuoto normativo profondo come un pozzo. Si tratta allora di capire quanta acqua sgorgherà dal rubinetto della Corte Costituzionale. Per saperlo, bisognerà tuttavia leggere la decisione per intero. Si dice sempre così, ma almeno in questo caso non è una clausola di stile. È importante che la Corte abbia definito una political question la garanzia delle unioni omosessuali, ma è altrettanto importante il parametro costituzionale cui andrà ancorata la futura attività legislativa. Per la verità, l’infondatezza pronunziata rispetto agli articoli 3 (che vieta di discriminare in base al sesso) e 29 della Costituzione (che menziona la famiglia e il matrimonio, senza definirli) parrebbe escludere ogni spazio alle nozze omosessuali. Per converso, l’inammissibilità rispetto all’art. 2 (dove vengono evocati i diritti inviolabili dell’uomo) parrebbe un invito al Parlamento affinché detti una disciplina paramatrimoniale, sul modello dei Pacs vigenti in Francia e in vari altri Paesi. Ma i tribunali di Trento e di Venezia, che hanno sollevato la questione, chiedevano una risposta sulla legittimità del matrimonio omosessuale, non delle sue buone o cattive imitazioni.
Quale che sia in ultimo il responso della Corte, c’è un che di disperante in quest’appello alla politica. Non perché l’appello sia sbagliato, perché è sbagliata la politica. Negli ultimi anni sono via via emersi e subito affondati in Parlamento i Dico, i Cus, i Didorè. Si direbbero altrettante canzonette, e forse in realtà lo sono. Le note stonate con cui ci canzona la politica.
La Stampa 15.04.10