«Nessuno può essere trasferito, espulso o estradato verso uno Stato dove esiste il serio pericolo che la persona sarà condannata a morte, torturata o sottoposta ad altre forme di punizione o trattamento degradante o disumano». Lo sostiene l’arcivescovo Agostino Marchetto, segretario del Pontificio Consiglio per la Pastorale dei Migranti riferendosi, in particolare all’accordo siglato tra Roma e Tripoli e ai recenti episodi di respingimenti.
«In Libia – ricorda Marchetto – esistono centri di detenzione e di rimpatrio dove le condizioni variano da accettabili a disumane e degradanti. E l’accesso a questi centri è difficile per cui è arduo monitorare il rispetto in essi dei diritti umani, tenendo poi conto che tale Paese non ha aderito alla Convenzione di Ginevra del 1951, nè al relativo Protocollo del 1967, e non riconosce l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati». «Confermo – sottolinea l’arcivescovo in una nota – la mia posizione di condanna a chi non osserva il principio di ‘non refoulement’, che sta alla base del trattamento da farsi a quanti fuggono da persecuzione. E mi domando se in tempo di pace non si riesce a far rispettare tale principio fondamentale del diritto internazionale umanitario, come si farà a richiederne l’osservanza in tempo di guerra. E la domanda si può estendere alla questione della protezione dei civili durante i conflitti, che viene così indebolita nella sua radice, comune, umanitaria».
Secondo il presule, «un altro diritto violato nell’atto di intercettare e respingere i migranti sulle coste africane del Mediterraneo è quello al ‘giusto processò, che comprende il diritto a difendersi, a essere ascoltato, a fare appello contro una decisione amministrativa, il diritto ad ottenere una decisione motivata, e quello di essere informati sui fatti su cui si basa la sentenza, il diritto ad una corte indipendente ed imparziale».
L’Unità 09.04.10