Messe in archivio le elezioni, la politica ha ripreso a trastullarsi col suo gingillo preferito: le riforme costituzionali. Non è una novità, sono trent’anni che ci giriamo attorno. Nel frattempo abbiamo sfogliato tutti i petali di questa margherita, dal presidenzialismo al cancellierato, dal neoparlamentarismo al premierato. Ora è il turno del semipresidenzialismo in salsa francese, evocato a gran voce dalla Lega. Neanche questa è una prima assoluta, benché pochi ne serbino memoria. Un mercoledì di giugno del 1997 la Bicamerale di D’Alema lo scelse infatti come futuro sistema di governo, sia pure in modo alquanto accidentale. Era accaduto che i commissari della Lega, che da quattro mesi ne disertavano i lavori, si presentassero compatti al voto conclusivo, rovesciando la maggioranza favorevole alla premiership. Un’imboscata, ma alla fine tutti si dichiararono contenti, tanto per noi italiani ciò che conta è una bella targa straniera sul modello di riforma, francese o inglese fa lo stesso.
Sta di fatto che in Francia il semipresidenzialismo esprime precisi connotati. In primo luogo, nel 1958 venne imposto da De Gaulle con uno strappo costituzionale, giacché il progetto di riforma non fu mai discusso in Parlamento; ma speriamo che almeno questo ci venga risparmiato, dato che non abbiamo un’Algeria nei nostri confini, né i parà del generale Massu a rumoreggiare nelle piazze.
In secondo luogo, l’obiettivo di De Gaulle era di mettere un bavaglio alle assemblee elettive; e infatti il Parlamento francese non ha mai avuto una salute di ferro, nemmeno dopo la riforma predisposta nel 2008 dalla commissione Balladur. Per un Parlamento malaticcio com’è ormai quello italiano, il semipresidenzialismo insomma può risolversi nel colpo di grazia, quello che ti toglie il fiato in gola. In terzo luogo, e soprattutto, l’attributo più pregnante del modello francese descrive altresì il suo fattore di maggiore debolezza. La Quinta Repubblica – diceva Duverger – è infatti un’aquila a due teste, con un capo dello Stato eletto direttamente dal corpo elettorale e un Primo ministro sostenuto dalla maggioranza in Parlamento. Tutt’e due a dividersi il menu, talvolta litigando (è accaduto nei 9 anni di coabitazione fra esponenti di partiti avversi), talvolta con il secondo ridotto a maggiordomo del presidente in carica. Da qui una perenne fonte d’incertezza: non a caso in mezzo secolo di vita la Costituzione francese ha attraversato 23 revisioni.
Ma forse per i politici italiani vale di più l’unica certezza che si può comprare in Francia: la doppia poltrona. In una ci fai sedere Berlusconi, nell’altra può sempre accomodarsi Bossi. E Fini? Se il metro di giudizio è questo, più che un semipresidenzialismo servirebbe un tripresidenzialismo, un presidenzialismo al cubo. Senza dire che i modelli non si possono copiare a pezzi, questo sì, quello no. In Francia c’è una legge elettorale che contempla il doppio turno, e che a sua volta è un po’ come il cemento che tiene insieme l’edificio: prendiamo pure quella? Sempre in Francia c’è uno Stato accentrato, dove i 36 mila municipi hanno ben pochi poteri, le regioni men che meno, e dove i prefetti esprimono la voce del padrone: come si concilia questo monolite con il federalismo della Lega? Tanto varrebbe allora spingere lo sguardo verso un autentico Stato federale, gli Usa di Barack Obama. A patto d’importare tuttavia anche i poteri del Congresso americano, dove il presidente non può nemmeno metter piede. Nonché la sacralità del potere giudiziario, che può permettersi di convocare il Papa in qualità di testimone, come è stato appena chiesto al tribunale di Louisville.
No, non è un vestito d’Arlecchino l’abito che ci renderà eleganti. Né un vestito preso a prestito, perché ogni popolo ha la sua taglia, e ha pure la sua storia. La nostra racconta un’indipendenza nazionale che dura da 150 anni; tornare al rango di coloni sarebbe il modo peggiore di far festa.
La Stampa 07.04.10
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Riforme, Pd scettico ma non chiude. Bersani: «Li aspettiamo in Parlamento»
In acque già agitate dopo il voto regionale, il freno sull’acceleratore delle riforme, impresso dalla maggioranza e oggi dal ministro leghista Roberto Maroni, rischia di aprire un solco nel Partito Democratico. Sulla scia di posizioni storiche, i veltroniani, nel ritrovato protagonismo post-elettorale, aprono al semipresidenzialismo alla francese mentre l’elezione diretta del capo dello Stato non ha mai convinto gli ex popolari. Prima di cercare una quadra all’interno, però, il segretario Pier Luigi Bersani vuole capire se la maggioranza fa sul serio e per ora resta fermo sulla bozza Violante.
«L’assenza di identità» del Pd, secondo la critica del presidente della Provincia Nicola Zingaretti, passa anche dal fatto che i democratici hanno da sempre posizioni diverse su modelli istituzionali e legge elettorale, andando dal modello tedesco, caro a Massimo D’Alema, al modello “sindaco di Italia”, da sempre simbolo di un governo che decide per Walter Veltroni. I due, nella riunione del coordinamento politico, la scorsa settimana, si sarebbero trovati, però, d’accordo su un punto: il Pd non può essere pregiudizialmente contrario al presidenzialismo. Posizione sulla quale oggi i veltroniani, davanti alla proposta del ministro dell’Interno, fanno un passo avanti sulla strada del dialogo: «Se i due pezzi più ragionevoli della maggioranza – sostiene il costituzionalista Stefano Ceccanti – cioè la Lega e Fini riprendono cose dette da noi sin dall’inizio, auspico che si rifletta prima di chiudere in modo preconcetto». Anche perchè il semipresidenzialismo si accompagnerebbe al sistema elettorale del doppio turno, che è stato a lungo cavallo di battaglia dei Ds e anche di Dario Franceschini.
Bersani, dal canto suo, è pronto al confronto in Parlamento con la maggioranza. Ma prima, spiegano i suoi, «bisogna che la maggioranza ci faccia vedere le carte». «Mi pare che sul senato federale e la riduzione del numero dei parlamentari siamo tutti d’accordo. Se domani vengono in Parlamento lo facciamo: di chiacchiere ne abbiamo fin sopra i capelli». «Nella maggioranza – però – uno propone una cosa, un altro un’altra, ne ho sentite di tutte le razze». «Il Pd – è la linea del segretario – ha una sua proposta, la bozza Violante. La maggioranza faccia la sua, se hanno cambiato idea spieghino perchè, e confrontiamoci in Parlamento». Una posizione che, però, rischia di essere tacciata di immobilismo da parte della minoranza interna.
«Nella direzione del 17 o in un’altra sede – spiega un dirigente di Area Democratica – dobbiamo discutere e alla fine decidere, magari anche votando, su un modello più complesso rispetto alla bozza Violante altrimenti potremo solo aderire o rifiutare la proposta che la maggioranza metterà sul piatto».
L’Unità 07.04.10