Quel pezzo di carta, o meglio le competenze che ne derivano, dovrebbe essere la migliore assicurazione contro la crisi. Ma anche se gli ultimi dati sull’occupazione mostrano che, almeno nella sua fase iniziale, la crisi ha colpito soprattutto i lavoratori con un basso titolo di studio, questo non vuol dire che nel nostro Paese la situazione sia rose e fiori per chi dispone di una laurea, magari accompagnata da una solida esperienza professionale.
Anzi, alcune storiche carenze del nostro sistema formativo, unite ai limiti della struttura produttiva italiana, riescono a volte a creare il paradosso per cui le aziende non trovano le professionalità necessarie (come evidenziato ad esempio dal Rapporto di Almalaurea cui sabato Il Messaggero ha dedicato un’inchiesta), ma allo stesso tempo chi ha un curriculum di tutto rispetto incontra serie difficoltà collocarsi e soprattutto a ricollocarsi, specie se è intorno ai cinquanta.
Per capire come questo possa accadere bisogna partire da una peculiarità italiana nel panorama dei Paesi Ocse: il nostro Paese rappresenta almeno una parziale eccezione alla regola secondo cui le eccellenze sono premiate anche in termini di reddito. «In Italia – spiega Pietro Reichlin, docente di Macroeconomia alla Luiss – i salari dipendono molto dall’anzianità e tendono a premiare meno l’istruzione». Il risultato è una penalizzazione per i giovani, sui quali si scarica il peso della precarietà. Allo stesso tempo però – e particolarmente in tempi di crisi – questa situazione può ritorcersi contro le professionalità con esperienza, nel caso in cui si trovino a perdere la propria posizione: l’unica prospettiva può essere proprio la competizione sul terreno della precarietà (contratti a termine, collaborazioni non continuative).
Lo scarso premio al merito è solo l’altra faccia, o per molti aspetti anche la causa – di un fenomeno abbastanza noto empiricamente ma recentemente misurato proprio dall’Ocse: la bassa mobilità sociale che caratterizza il nostro Paese ed altre economie dell’Europa meridionale, rispetto ai Paesi nordici o, al di fuori dell’Europa, al Canada o alla Corea. Il successo professionale e il reddito dipendono in larga parte da quelli della famiglia di origine: un fenomeno che oltre ad essere frustrante per chi lo sperimenta, influenza negativamente la crescita economica. Le retribuzioni e i divari retributivi tra le diverse categorie di lavoratori tendono a persistere nel tempo, a trasmettersi di generazione in generazione: risulta così ad esempio che nel nostro Paese quasi il 50 per cento del vantaggio economico goduto dai padri ad alto reddito rispetto a quelli con stipendi modesti viene ereditato dai figli. In Danimarca, Norvegia, Finlandia, ma anche ad esempio in Canada, la percentuale è al di sotto del 20 per cento. Simmetricamente, da noi il figlio di un padre con istruzione universitaria ha oltre il cinquanta per cento di probabilità in più di accedere allo stesso titolo di studio, rispetto a chi non si è ritrovato in dote questa fortuna alla nascita.
Un’altra caratteristica del nostro mercato del lavoro è naturalmente la sua dualità, la grande divisione tra le regioni meridionali ed il Centro-Nord. Questa situazione si è tradotta storicamente, anche in tempi recenti, in ondate di migrazione, che ultimamente coinvolgono sempre di più proprio la componente più qualificata della forza lavoro, cioè, con qualche approssimazione, i laureati.
Il fenomeno è stato descritto recentemente da due ricercatori della Banca d’Italia, Sauro Mocetti e Carmine Porello, in uno studio sulla mobilità del lavoro. Dopo la fase storica dell’emigrazione da Sud a Nord, quella degli anni Cinquanta e Sessanta, la tendenza si è notevolmente attenuata fino all’inizio degli anni Novanta, quando è ripresa toccando probabilmente il culmine intorno al 2000. Poi c’è stata una nuova frenata, dovuta da una parte all’alto livello de prezzi immobiliari nel Centro-Nord, dall’altra alle trasformazioni del mercato del lavoro: la diffusione dei contratti a termine in particolare sembra aver scoraggiato molti dall’intraprendere una scelta così impegnativa.
All’interno di questo contesto però è cresciuto il peso dell’emigrazione dei laureati. Se negli anni Novanta lasciavano il Sud 7 laureati ogni 1000, tra il 2000 e il 2005 sono diventati 12. Le Regioni meridionali hanno perso nel quinquennio circa 50.000 “cervelli”, contro i 20.000 del decennio precedente.
Un ultimo fattore da considerare è la struttura produttiva del nostro Paese, che storicamente – oltre a caratterizzarsi per una grande frammentazione del tessuto imprenditoriale – è decisamente meno orientata verso i settori tecnologici. E questa è un’altra chiave dell’apparente paradosso. «Il problema può essere sia di domanda che di offerta – spiega Reichlin – da un parte c’è la scarsità di laureati in materie scientifiche, dall’altra l’offerta delle imprese che non è molto consistente».
Insomma, qualcosa che somiglia ad un circolo vizioso: i settori avanzati non hanno una massa tale da influenzare i percorsi formativi, ma chi ha produzioni di eccellenza rischia di dover cercare il capitale umano all’estero.
Il Messaggero 06.04.10
Pubblicato il 6 Aprile 2010