Le corde morali e politiche vibrano ancora quando si vedono operai sui tetti, al freddo, esposti al pericolo, soli e mal rappresentati, costretti all’estremo gesto per la difesa di un diritto costituzionale, il lavoro. Non sale alcuna voce, al contrario, non si nota alcuna convinta, duratura battaglia politica quando si tratta di insegnanti. Sono anche saliti sui tetti, si sono anche messi in mutande, ma non hanno suscitato altro che sorrisi e temporanea simpatia. Venticinquemila persone in carne e ossa sanno già che tra pochi mesi non avranno più un lavoro. Un dramma epocale frutto di una riforma della scuola devastante per loro e per il futuro dei ragazzi. Un dramma relegato alla solitudine di chi lo vive e alle chiacchiere con gli amici. Un dramma che riguarda famiglie, mogli, mariti, figli. Molti, moltissimi saranno cinquantenni che finiranno di insegnare e non sanno fare altro. Lo scrivono all’Unità quasi ogni giorno. In settembre avverrà nella storia repubblicana del nostro Paese una prima assoluta: un licenziamento di massa da parte dello Stato. Immaginate se Marchionne, l’amministratore delegato della Fiat, annunciasse la cassa integrazione senza ritorno per 25mila operai. Il centrosinistra, almeno a parole e con qualche fatto, lì ancora c’è(ma non basta un’alba davanti ai cancelli Fiat). Gli insegnanti sono soli, sentono di esserlo. Per decenni la politica tutta ha destrutturato l’immagine dei docenti, sparando nel mucchio con luoghi comuni che, sempre, hanno suonato a sfregio per chi quel lavoro svolge con coscienza, sacrificio, attenzione pedagogica oltre che didattica, con scarsissimi riconoscimenti sociali ed economici. Messaggi negativi che oggi sono convinzioni diffuse nell’opinione pubblica: i professori sono inetti, inutili, parassiti sociali. Conclusione: licenziare un insegnante non è un danno sociale, nemmeno 25mila (più 15mila bidelli e addetti di segreteria che pure la scuola la fanno). Il silenzio della politica nei mesi in cui il governo preparava la riforma delle superiori è stato totale. L’impegno a difesa della scuola pubblica, efficiente, come reale ascensore sociale non c’è stato. E gli appelli di queste ultime settimane, anche del Pd, in cui questo impegno è sembrato riemergere, sono apparsi tardivi, inutili, quasi una beffa a quegli insegnanti che nessuno ha salvato da un destino scritto nei testi Gelmini. La scuola pubblica andava migliorata, non progressivamente sconvolta. Nell’analisi del voto tutti, a partire dal Pd, vadano a leggere le astensioni anche degli insegnanti (e degli operai, con anche tra loro caso una percentuale di voti che se n’è andata a destra, soprattutto al Nord), che in altri tempi hanno riposto grande fiducia, tradita, nel centrosinistra. Lasciamo alla riflessione di tutti stralci di un appello apparso il 26 marzo sul sito del Cidi (Centro iniziativa democratica degli insegnanti): «Ci sono dei momenti in cui bisogna avere il coraggio e la forza di dire No. No alla scuola pubblica che va al massacro. No alla scuola delle quote per gli alunni non italiani. No ad assolvere l’obbligo nella formazione professionale. Noa lavorare a 15 anni nell’apprendistato. No a risparmiare sulle supplenze. No a dividere gli alunni nelle varie classi quando manca l’insegnante. No a classi troppo numerose. No alla dissipazione della scuola primaria. No alle iscrizioni al buio. No a Indicazioni nazionali per i licei che impoveriscono la mente e il cuore. No a intimidire i dirigenti. No a impaurire i docenti. No alla scuola dei ricchi e a quella dei poveri. No al mercato dei master di fantomatiche università on line. No alla valutazione che sanziona e punisce. No e ancora No. Gli insegnanti del Cidi sono sempre stati in prima fila in tutti i momenti più significativi della vita della scuola con l’ostinata convinzione che l’istruzione sia strumento di libertà e di emancipazione e la scuola un bene pubblico di cui aver rispetto e cura». Rispetto e cura, è già un programma politico.
L’Unità 02.04.10
Pubblicato il 3 Aprile 2010