Fin qui Giorgio Napolitano non ha certamente fatto scialo dei propri poteri. Li ha usati con moderazione, preferendo la moral suasion al trillo del fischietto. Oppure non li ha usati affatto, come il potere d’indirizzare messaggi solenni al Parlamento. Fino a ieri, quest’ultimo era anche il caso del potere di rinvio, mai esercitato per l’appunto dall’undicesimo Presidente della Repubblica italiana.
E dunque, che significato assume il fatto nuovo? È il segno di una svolta, d’un atteggiamento indocile che marcherà gli ultimi tre anni di questo settennato? È solo un’occasione presa al balzo per rintuzzare, colpendo una legge secondaria, le critiche di chi lamenta l’eccessiva prudenza del Capo dello Stato?
Tranquilli: è la normalità costituzionale. Il rifiuto di promulgazione non è un trauma, non innesca terremoti nella nostra cittadella pubblica. Nemmeno quando cade su leggi tutt’altro che insignificanti, come nel caso di specie. A patto d’intendersi però sul perimetro concettuale che ne delimita i confini. Un equivoco allevato sia a destra che a sinistra assegna al presidente un ruolo di garante circa la costituzionalità degli atti normativi sottoposti alla sua firma. Da qui il tiro al piccione. Hai promulgato il lodo Alfano? La Corte Costituzionale invece lo ha colato a picco, evidentemente non conosci il tuo mestiere. Rinvii alle Camere la nuova disciplina del lavoro? Domani, chissà, questa stessa disciplina uscirà indenne dalla mannaia della Consulta.
Errore: non sull’incostituzionalità dell’una o l’altra legge, quanto piuttosto sul tipo di giudizio affidato al Presidente. Non la legittimità, bensì l’opportunità costituzionale rappresenta il suo binocolo, il suo metro di misura. Altrimenti la suprema magistratura dello Stato verrebbe smentita a giorni alterni da qualunque magistrato: il diritto, si sa, è opinabile quanto e più dell’arte. Ma il presidente rappresenta l’unità nazionale, ed è a tale specifica funzione che restano ancorate tutte le sue competenze. Se una legge provoca lacerazioni nel tessuto sociale, se è indigesta per gran parte dell’opinione pubblica, se si accanisce sui più deboli, basta e avanza per chiedere al Parlamento di ripensarci sopra. E infatti non a caso il messaggio di Napolitano, benché molto dettagliato, non fa mai cenno all’incostituzionalità della legge rinviata.
Vi risuona però una doppia critica: formale e sostanziale. E su entrambi i fronti la critica appare – questa sì – opportuna. In primo luogo gioca per esempio l’art. 20 della legge, che detta un’interpretazione «autentica» dopo 55 anni d’incontrastata applicazione della legge interpretata: un trucco, che ha il solo scopo d’accompagnare la modifica con un effetto retroattivo. Ma più in generale gioca l’abito cucito addosso alla nuova disciplina nella nostra sartoria legislativa. In origine erano 39 commi dislocati in 9 articoli; durante l’esame parlamentare i commi sono diventati 140, gli articoli 50, che s’allungano per 35 pagine a doppia colonna. E i contenuti? Un’insalata mista dove c’è spazio per il doping, i dottorati di ricerca, le vaccinazioni obbligatorie, la privacy, i medici sportivi, i portatori di handicap, le pensioni, i vigili del fuoco, le pari opportunità e molte altre verdure. Insomma mentre il ministro Calderoli brucia in piazza qualche dinosauro normativo, il mostro risorge ancora più cattivo.
E c’è poi la questione sostanziale, che ovviamente tocca la materia del lavoro. Qui il capolavoro è l’art. 31, dove s’affollano 2607 parole però manca ogni parola sullo statuto dei lavoratori. Eppure la vittima sacrificale è proprio quella vecchia legge del 1970, benché non venga mai citata per nome e cognome. Un altro trucco, un’altra garanzia svuotata, anziché soppressa a chiare lettere. Ma se da domani i giovani in cerca di lavoro perdessero la piena tutela contro i licenziamenti ingiusti, alla fine della giostra ci rimetteremmo tutti, anche chi ha già raggiunto l’età della pensione. Perché i diritti si tengono l’uno con l’altro, come i muri portanti delle case. Perché quella legge è figlia della migliore stagione dei diritti che abbiamo attraversato: la stagione del divorzio, della riforma penitenziaria e sanitaria, dei manicomi chiusi, del nuovo diritto di famiglia. E perché adesso c’è bisogno di guardare avanti, non di tornare indietro.
La Stampa 01.04.10