Dopo le abbondanti nevicate del mese di febbraio su Washington, la percezione del riscaldamento globale negli Stati Uniti si è molto ridotta mettendo in crisi l’autorevolezza di una delle ultime istituzioni inattaccabili della nostra epoca, la scienza.
Il New York Times ha ragionato su quanta parte nella formazione di queste opinioni è legata ai fatti e quanta al modello mentale e culturale delle persone. David Ropeik, esperto in comunicazione del rischio, sostiene che la gente si serve degli estremi meteorologici di freddo o di caldo non come eventi per comprendere il clima, ma come proiettili da sparare contro un diverso gruppo di appartenenza sociale. La questione climatica conduce infatti a una critica dell’attuale modello di sviluppo, quindi i gruppi più conservatori e individualisti, che detengono privilegi in uno status quo di rigido ordine e gerarchia sociale, brandiscono i candelotti di ghiaccio e le palate di neve per screditare la scienza del riscaldamento globale contro i gruppi progressisti, fautori di una società più equa e di un maggior intervento dello stato nelle politiche ambientali e sociali, che a loro volta adotteranno come armi termometri roventi e invasi disseccati. Nessuno dei due schieramenti ha però la minima idea di cosa sia il clima e della differenza che corre tra i fatti meteorologici locali e quotidiani, rispetto agli andamenti globali e a lungo termine. Del resto, mentre Washington era bloccata dalla bufera, a Vancouver l’inverno più caldo della storia obbligava l’organizzazione olimpica a trasportare la neve in camion, mentre migliaia di ettari di foresta di conifere subivano gli attacchi di un coleottero parassita che di norma viene ucciso da temperature sotto i -30 gradi e prospera invece negli inverni miti.
Nel conflitto sul cambiamento climatico, ogni «tribù» adotta punti di vista che riflettono le proprie convinzioni sul funzionamento della società piuttosto che una reale comprensione fisica del problema. A ciò Janet Swim, docente di Psicologia alla Penn State University, aggiunge che il modello mentale è spesso una gabbia che ci fa credere di conoscere argomenti complessi semplificandoli eccessivamente: la neve è un’icona associata con un clima freddo, quindi nell’immaginario esclude che il pianeta si stia riscaldando.
Eric Johnson, della Columbia Business School, precisa che le nostre esperienze più vivide e recenti spesso offuscano informazioni più significative ma astratte e lontane nel tempo, proprio come un malato non si accorge dell’insorgere di una grave patologia, riscontrabile solo da un esame medico e non dal fatto di sentirsi in forma. Insomma, questa miscela di impressioni e interpretazioni soggettive, unita all’informazione talora affidata a giornalisti non preparati, ha mandato a picco la fiducia nella scienza del clima, rafforzata dal fiasco della previsione di mortalità dovuta al nuovo virus influenzale. Eppure la scienza in sé, con tutto questo rumore c’entra poco o nulla. Continua a fare il suo mestiere di ricerca della verità, sbagliando e correggendo, ma offrendoci comunque degli strumenti di decisione basati sulla probabilità. Anche nell’incertezza si possono così fare scelte razionali.
Lo scetticismo è benvenuto quando aiuta a migliorare la qualità dei risultati, non quando mira soltanto a demolire la credibilità di un’intera categoria. Purtroppo vi è anche una scienza deviata che su inevitabili imprecisioni del rapporto sul clima dell’Ipcc-Onu ha costruito una campagna di disinformazione di proporzioni pari a quella che fu messa in atto dalle multinazionali del tabacco contro i medici che ne sostenevano la tossicità. In proposito, Greenpeace ha pubblicato un rapporto su vent’anni di negazionismo climatico ad opera dell’industria dei combustibili fossili, intitolato «Dealing with doubt» («far commercio del dubbio»). Michael Mann, il climatologo della Pennsylvania University ferocemente attaccato per la sua ricostruzione della temperatura della Terra negli ultimi duemila anni, ritenuta fasulla, ha commentato così: «La fazione che sta montando questi attacchi è estremamente ben finanziata e organizzata. Da decenni dispone di un’infrastruttura preparata per aggressioni di questo genere, sviluppata durante le campagne contro il fumo e per la difesa di altri interessi. E’ letteralmente come un marine che fa a botte con un ragazzino scout. Noi non siamo esperti di pubbliche relazioni come lo sono loro, non siamo avvocati, non siamo lobbisti. Siamo scienziati, abbiamo studiato come fare scienza». La scienza ha sì i suoi difetti, come tutte le cose umane, ma in fondo funziona, e anche questo giornale si scrive e si stampa grazie alle sue conquiste.
La Stampa 29.03.10