“I crimini commessi sono tra i più atroci che l’umanità ricordi”: lo ha detto il presidente della corte del Tribunale penale internazionale dell’Aia per i crimini nella ex Jugoslavia, nel momento in cui leggeva la sentenza di condanna all’ergastolo per l’ex generale serbo-bosniaco Mladic. 8mila musulmani sterminati nel corso della “liberazione” di Srebrneica nell’estate del 1995, e poi stupri di massa, pulizia etnica, deportazioni. Un protagonista del conflitto scoppiato nel cuore dell’Europa che causò 100mila morti e oltre 2 milioni di sfollati. Desta molta inquietudine il fatto che, ancora oggi, per una parte dei serbi Mladic sia considerato un eroe di guerra, mentre rappresenta una contemporanea “banalità del male”, e non solo per le donne e le mamme di Srebrenica. Nel 2005, in qualità di assessore alle politiche culturali e al Progetto Memoria del Comune di Carpi, ebbi l’onore di introdurre un bellissimo volume, “E per questo resisto. Bambini e bambine in tempi di guerra”, a cura di Barbara Domenichini ed Emilia Ficarelli. Erano i giorni in cominciava a trapelare la verità di quanto accaduto a Srebrenica: scrissi la nota introduttiva al libro con quel genocidio davanti agli occhi. E ancora oggi mi accompagna. Ecco perché desidero condividere con voi le parole di allora…
«… Nella stesura di questa presentazione, tra le tante immagini che purtroppo l’infanzia nella guerra poteva offrirmi, una in particolare mi ha accompagnato (come il fantasma della mia cattiva coscienza): una raffigurazione dura e “pesante”, che mi è urgente condividere con i lettori del volume. A distanza di dieci anni, alcuni filmati che testimoniano il massacro di Srebrenica (una delle pagine più drammatiche del recente conflitto che ha martoriato la ex Yugoslavia) sono stati trasmessi da molte televisioni: la paura negli occhi dei bosniaci di religione musulmana, “catturati” dall’esercito serbo-bosniaco, o la loro uccisione con un colpo alla nuca sono così entrare nelle case di molti, anche di tanti italiani che allora ritennero quel conflitto alle porte di casa immeritevole del proprio interesse. I principali responsabili di quel genocidio (Radovan Karadzic e Ratko Mladic) sono latitanti, e il fatto che il Tribunale Penale Internazionale dell’Aja li abbia accusati come criminali di guerra non può acquietare le nostre coscienze e alleggerire le nostre responsabilità per non aver intrapreso allora alcuna azione che potesse impedire il massacro di 10.000 uomini innocenti, tra adulti e ragazzi maggiori di 12 anni, condannati a morte per la loro “etnia”.
Personalmente non ho avuto bisogno di vedere quelle immagini, a lungo occultate, per sapere e convincermi che a Srebrenica, nella colpevole e scandalosa noncuranza europea ed occidentale e al cospetto di un atteggiamento vergognoso ed inaccettabile dell’ONU, si è consumata una terribile “operazione di pulizia etnica”, un genocidio ideologicamente prossimo a quello perpetrato dai nazisti nei confronti degli ebrei, degli zingari e dei testimoni di Geova. Ma devo ammettere che alcuni fotogrammi dei filmati trasmessi oggi hanno colpito la mia mente e il mio cuore più di quanto non avessero fatto allora i resoconti giornalistici e gli accorati appelli dei pochi testimoni che riuscirono ad assistere a quei fatti tragici: in un gruppo di “prigionieri” musulmani, in attesa di un destino a noi purtroppo noto, un ragazzino – snello, quasi ossuto, come sono i giovinetti nell’età che li conduce alla maturità fisica – guarda con occhi increduli verso la telecamera, verso i suoi aguzzini: in braccio, assurdamente, porta un piccolo coniglio bianco al quale accarezza con ritmo meccanico il manto, denunciando con quel gesto affettuoso verso l’animale il tentativo di tranquillizzare se stesso. Ignoro naturalmente il destino di quel fanciullo e del suo trastullo peloso: in cuor mio spero (o forse lo spero per la mia coscienza) che la sua giovane età lo abbia risparmiato al destino delle fosse comuni, quelle fosse empiamente colme di cadaveri che un paziente e penoso lavoro individua una dopo l’altra.
Quel bambino terrorizzato e il suo coniglio sono ora per me l’icona della oscenità dell’odio, dell’assurdità della guerra, della cieca violenza che alberga in ogni essere umano e che solo i profondi convincimenti di tolleranza e di convivenza possono neutralizzare. Quel bambino e il suo coniglio sono un monito ad oppormi e “resistere” ad ogni razzismo, sopruso e violenza, per costruire una società libera e plurale, nella quale non si debba temere per il proprio pensiero o credo religioso o cultura e nella quale sia possibile affermare la propria identità senza prevaricare gli altri. Quel bambino e il suo coniglio sono una esortazione a realizzare una società che consenta ai bambini di diventare adulti avendo trascorso un’infanzia di giochi, di fantasie, di sogni e di amore per l’altro. Un’infanzia nella quale si possa semplicemente accarezzare un coniglio bianco.»