In Italia ci sono pochi laureati. Siamo al penultimo posto in Europa. In particolare, è laureato il 24,8% dei giovani tra i 25 e i 34 anni, il 10,2% in meno rispetto alla media europea. In termini assoluti, rispetto all’Europa, mancano all’appello ben 700.000 giovani laureati italiani. Su questi dati, già sconfortanti, pesa poi il background economico e sociale della famiglia di provenienza che influisce, più che in altri paesi, sulla possibilità dello studente di intraprendere e concludere una soddisfacente carriera universitaria. Eppure la laurea conviene. I dati del Consorzio Almalaurea mostrano che è comunque più facile trovare lavoro e avere una retribuzione più adeguata (pur essendo gli stipendi italiani mediamente bassi) se, oltre al diploma, si possiede una laurea. Meglio ancora se magistrale e non solo triennale. E’ in questo contesto che si inserisce il dibattito sugli sbarramenti posti all’iscrizione all’università, quel “numero chiuso” sempre più spesso esteso dagli atenei anche ai corsi di laurea per i quali non è previsto per legge (Medicina, Odontoiatria, Veterinaria, Professioni sanitarie, Architettura e Scienze della Formazione). Dibattito rinfocolato in questi giorni dalla decisione del TAR Lazio, a seguito di un ricorso dell’associazione studentesca UDU, di sospendere il provvedimento dell’Università di Milano che aveva istituito il numero chiuso in diversi corsi di laurea di area umanistica (Filosofia, Lettere, Scienze dei beni Culturali, Scienze umane, dell’ambiente, del territorio e del paesaggio, Storia, Lingue e letterature straniere).
Siamo insomma di fronte ad una contraddizione tutta italiana: abbiamo pochi laureati – cioè poche persone con formazione terziaria in grado di affrontare con le necessarie competenze culturali e professionali le sfide della modernizzazione e della globalizzazione – e, contemporaneamente, restringiamo l’accesso ai corsi di laurea. Da dove nasce questa contraddizione? Come risolverla? Innanzitutto è necessario portare all’università anche i giovani che provengono da famiglie poco abbienti, superando quegli ostacoli di natura sociale ed economica che, soprattutto nell’ultimo decennio di crisi economica, li hanno allontanati dal percorso universitario. L’ultima legge di bilancio ha così introdotto un pacchetto di misure, il cosiddetto “Student Act”, che dall’anno accademico 2017/18 consentiranno l’iscrizione gratuita ai giovani a basso reddito e calmiereranno le tasse universitarie per quelli a medio reddito. Inoltre, sul versante delle borse di studio, si è intervenuti sia sugli stanziamenti che sulle regole di assegnazione, di modo che esse saranno più numerose e, soprattutto, più coerenti con i fabbisogni territoriali.
Ora però è altrettanto necessario intervenire sulle cause che hanno portato a far diffondere sempre più nel tempo i corsi di laurea a numero chiuso. Per la verità, non vi sono singole cause ma una serie di concause o, se si preferisce, il “combinato disposto” di varie norme introdotte dal 2008 e, in particolare, in attuazione alla legge 240/2010, nota come Legge Gelmini. Il blocco parziale del turn over del personale, che agisce dal 2008, sia pure con quote decrescenti anno dopo anno, ha comunque prodotto l’uscita per pensionamento dal sistema universitario, senza rimpiazzo, di oltre un quinto dei docenti universitari. Poco meno di dodicimila posti sono rimasti scoperti e tali rimarranno perché, se non si interverrà con nuove norme, dal 2018 in poi le università potranno assumere ma in misura non superiore alle cessazioni. E senza professori, si sa, non si fa università. Serve assolutamente, quindi, un piano straordinario di nuovi ingressi nel corpo docente, rispondendo alle attese delle università, degli studenti e dell’enorme fascia di precariato giovane e competente che si è accumulata in questi anni. La cura dimagrante ha avuto effetti ancora più gravi (e distorsivi) perché è stata accompagnata dal meccanismo dei “punti organico”. Senza attardarsi in tecnicismi, si può dire che è il Ministero a determinare direttamente ogni anno le possibilità assunzionali di ciascun ateneo, sulla base di alcuni parametri di varia natura che solo in parte tengono conto delle risorse finanziariamente disponibili. Il risultato è che si interviene pesantemente nella programmazione autonoma dei singoli atenei e, non di rado, si impedisce ad alcuni di poter assumere docenti pur avendo questi a disposizione le risorse sui propri bilanci per retribuirli, ma non dispongono dei punti organico necessari. E’ un problema che va affrontato alla radice, restituendo agli atenei l’autonomia finanziaria e budgetaria che fu loro concessa nel 1993 e mai abrogata e che, tra l’altro, non rappresenterebbe alcun aggravio per le casse dello Stato. Peraltro, il decreto legislativo n. 49/2012, che disciplina la programmazione, il monitoraggio e la valutazione delle politiche di bilancio e di reclutamento degli atenei, contempla già una serie di strumenti di controllo e di sanzioni utili a far rispettare da parte degli atenei l’equilibrio dei bilanci.
Alla forte contrazione della platea di docenti molte università hanno risposto cercando di limitare il numero di studenti che si possono iscrivere, in modo da non aumentare eccessivamente il rapporto studenti/docenti e il carico di lavoro dei docenti, a scapito della qualità della formazione e della ricerca. Ma è scattata anche un’imprevista conseguenza dell’introduzione del “costo standard per studente”, che serve a ripartire una parte cospicua del fondo di finanziamento ordinario delle università statali (per l’esattezza, nel 2017, 1 miliardo e 285 milioni di euro sui 7 miliardi complessivi del fondo), combinata con i cosiddetti “requisiti minimi di docenza” in rapporto alla “numerosità di riferimento e massima degli studenti” per corso di studi (differenziati per i raggruppamenti disciplinari di area medico sanitaria, scientifico-tecnologica e umanistico-sociale), definiti dal decreto ministeriale sull’accreditamento dei corsi di laurea (n. 987 del 12 dicembre 2016), uno degli ultimi firmato dalla Ministra Giannini.
Sia il costo standard sia i requisiti minimi e le numerosità degli studenti sono meccanismi giusti e necessari ma non possono essere applicati sulla base di valutazioni puramente tecniche, poiché i loro effetti sono immediatamente e eminentemente politici. Con gli attuali meccanismi può capitare che un corso di laurea non possa essere accreditato e debba essere soppresso, non perché si sia dimostrato di scarsa qualità ma perché, ad esempio, ha un docente di ruolo in meno rispetto ai numerosità di riferimento degli studenti a causa del blocco del turn over. E, si badi, i parametri sono eguali in tutta Italia, in un grande ateneo al centro di territori popolosi e ben infrastrutturati come in un piccolo ateneo ubicato in territori marginali e svantaggiati!
Con un decreto-legge del giugno scorso, la Ministra Fedeli è riuscita a correggere alcuni aspetti del costo standard, ovviando ai diversi problemi emersi nei primi anni di applicazione, determinati proprio dall’algoritmo di calcolo (di nuovo la tecnica!). In particolare si è intervenuti per evitare che un ateneo riceva, in termini di costo della docenza, un finanziamento maggiore per ogni studente di area scientifico-tecnologica rispetto a quello che riceve per lo studente di area umanistica, sebbene il numero di docenti necessari per ottenere l’accreditamento sia il medesimo. Come conseguenza di questo algoritmo, non certo di una scelta politica, si indirizzano inevitabilmente gli atenei a dedicare maggiore attenzione verso i corsi di laurea di carattere scientifico-tecnologico. Certo, sappiamo che l’attuale sistema produttivo e l’innovazione tecnologica richiedono un maggior numero di giovani con ottime competenze scientifiche e tecnologiche, ma questo obiettivo dev’essere raggiunto con una specifica strategia politica e, soprattutto, con investimenti mirati, non semplicemente spostando risorse a danno dei saperi umanistici e di chi vi si dedica. Occorrono quindi investimenti maggiori di quelli inseriti nella legge di bilancio per il 2017, che pure ha sostenuto finanziariamente le attività di orientamento pre-universitario in modo che ciascun diplomato possa scegliere il corso di laurea più adatto alla propria preparazione e più in sintonia con le proprie aspettative.
Resta ora da intervenire sui requisiti minimi di docenza e sulle numerosità di riferimento degli studenti, nonché su alcune delle novità introdotte dal citato decreto Giannini. Tra di esse vi è quella che, probabilmente, ha maggiormente influito sulla scelta – a mio avviso comunque sbagliata – dell’ateneo ambrosiano. Cioè il divieto di attivare nuovi corsi di studio, in qualunque disciplina, se prima non si è ottemperato a rispettare i requisiti minimi di docenza per tutti gli altri corsi. Traduco: superata la numerosità massima di studenti iscritti prevista dal decreto, occorre aumentare in proporzione anche i docenti assegnati a quel corso. La norma ha una sua logica, tesa a garantire agli studenti una didattica adeguata anche nel numero di docenti. Ma, se si scende dalla teoria alla pratica, emergono alcune conseguenze perverse. Ad esempio, se al corso di laurea in Storia si iscrivono troppi studenti rispetto alla numerosità massima fissata dal decreto, l’ateneo interessato deve destinarvi o assumere nuovi docenti di ruolo da assegnare al corso di Storia. Se non li ha a disposizione e se non li può assumere – perché ha pochi “punti organico” o ha già deciso di destinarli ad altri settori disciplinari, magari di carattere scientifico, per i quali riceve(va) un finanziamento per studente maggiore in base al costo standard – la sanzione è che quest’ateneo non può attivare nessun nuovo corso di laurea. Per non impantanarsi, non gli resta altra scelta che bloccare le iscrizioni a Storia.
Riassumendo, sono certamente necessari e urgenti nuovi investimenti nel settore universitario, a partire dalla prossima legge di bilancio. Ma è altrettanto urgente e necessario valutare attentamente gli effetti degli atti amministrativi emanati nel tempo in ottemperanza della legge Gelmini o di altre leggi e “raddrizzarli” là dove hanno avuto come effetto di indebolire l’offerta formativa delle università, di limitare la loro autonomia, di allontanare studenti desiderosi di alta formazione. A cominciare dai vari, successivi e intricati decreti sull’accreditamento. Come accaduto recentemente per il costo standard, non si tratta certo di scardinare i meccanismi di valutazione della qualità del sistema e di verifica del buon uso dei finanziamenti pubblici, bensì di analizzarne tecnicamente la reale efficacia e, soprattutto, di valutarne politicamente gli esiti effettivi. Così come si è fatto con lo Student Act, occorre rimuovere tutto ciò che concretamente impedisce l’accesso, la frequenza e il successo degli studenti universitari. E’ questa la nuova sfida di politica universitaria che deve essere affrontata e vinta nei prossimi mesi.
Ecco il link all’articolo pubblicato oggi su Scuola24 (link)