Il Sole 24 Ore ha avviato un dibattito sul sistema universitario a partire da una riflessione di Dario Braga, a cui hanno fatto seguito altri interventi, che potete leggere qui. Per chi, come me, ha dedicato gran parte della propria attività parlamentare alle politiche universitarie, si tratta di una iniziativa certamente apprezzabile perché – al di là delle considerazioni espresse e della loro eventuale distanza dalle mie valutazioni – rappresenta il tentativo di portare il dibattito sull’università, al netto dei luoghi comuni e degli stereotipi, in seno alla società, che è (ma sarebbe meglio dire, dovrebbe essere) il principale interlocutore del mondo accademico.
Il contributo di Daniele Terlizzese dal titolo “Cooptazione e persone di qualità”, a corredo dei precedenti citati è quello che più mi sprona a prendere la parola, per dissentirne.
L’autore si fa portavoce di alcune idee che hanno trovato – negli ultimi anni – sostegno pubblico e attuazione normativa, a partire dalla considerazione che il buon reclutamento vada premiato, affinché “chi sceglie abbia incentivi chiari e potenti a prendere i migliori”. Io porrei la questione in altri termini e cioè che la selezione debba basarsi sulla responsabilità di chi seleziona e che si sanzioni il comportamento irresponsabile. Lasciatemi spiegare, prima di etichettarmi come “securitaria”. Ogni selezione – ogni concorso – deve svolgersi per l’individuazione del candidato “migliore” a ricoprire una posizione che, nel caso in specie, è rappresentata da un posto incardinato in un determinato dipartimento, dedicato a specifiche ricerche che traslano poi nei contenuti dell’attività didattica professorale. Se il commissario di concorso sbaglia – e per quella posizione individua non il migliore ma il mediocre, con ripercussioni che inevitabilmente riverberano sull’attività dell’intero dipartimento – allora dovrebbe scattare un meccanismo sanzionatorio. In che modo? Nel corso della conversione del Decreto Legge n. 147/2007, ad esempio, la Camera approvò un emendamento (presentato da Walter Tocci e da me sottoscritto) relativo al reclutamento dei ricercatori (l’occasione fu data dal rinvio al 2008 del piano di reclutamento straordinario, l’ultimo per la verità, di ricercatori a tempo indeterminato voluto dal Governo Prodi): esso disponeva la decurtazione dal FFO della quota relativa allo stipendio nel caso in cui il ricercatore, al compimento del primo triennio, non avesse raggiunto una attività di ricerca adeguata al profilo e, quindi, la sua retribuzione sarebbe stata a valere sui fondi propri dell’Ateneo. La norma suscitò molte critiche, piovute da più parti (di cui si trova ancora qualche traccia in rete) e non entrò mai a regime. Eppure, continuo a pensare che se la commissione concorsuale locale non agisce per il meglio, allora è l’ateneo deve farsi carico di “scelte sbagliate”. Più che una sanzione la potremmo definire un meccanismo di responsabilità agita… Ecco perché non mi convince la logica della premialità assegnata a pratiche che comunque, per loro stessa natura, devono (o dovrebbero) portare alla selezione dei candidati migliori. Che poi, in realtà, è quanto invece avviene già oggi – senza che si percepisca, nel bene e nel male, una sensibile differenza nei comportamenti dei commissari di concorso – dato che il 20% della quota premiale del Fondo di Finanziamento ordinario è calcolata secondo il criterio della valutazione del reclutamento, sulla base della Valutazione della Qualità della Ricerca. Nel 2016, quel 20% ha significato 286.600 milioni (poiché la quota premiale è stata di 1 miliardo e 433 milioni).
A questo proposito, interviene il secondo punto di dissenso.
Come molti commentatori, ormai, anche Terlizzese afferma che sono ancora troppo poche le risorse attribuite secondo criteri di premialità (il miliardo e 433 milioni di cui sopra) e che la sua distribuzione è condizionata da clausole di salvaguardia. Ora, è ben vero che porre “vincoli al premio” è illogico rispetto alla funzione del premio stesso (è come se al campione olimpico venisse data mezza medaglia perché il resto va ripartito tra il primo e il secondo classificati), ma è necessario introdurre nel ragionamento due valutazioni, che spiegano come si sia approdati a questa evidente illogicità. La prima riguarda il fatto che ad essere esigua non è tanto la quota premiale, quanto piuttosto lo è il finanziamento complessivo! In 10 anni, il finanziamento ordinario è passato da 7 miliardi e 448 milioni del 2008 (ultimo Governo Prodi) ai 6 miliardi e 919 milioni del 2016, transitando per l’abisso del 2010 a 6 miliardi e 681 milioni, da cui si sta ancora oggi risalendo, troppo lentamente e con troppa fatica (lo stanziamento per l’anno in corso è di 6 miliardi e 982 milioni). Una perdita secca di oltre il 15% del valore reale, in gran parte “realizzata” con il blocco del turn over del personale e quindi con la impossibilità di sostituire i docenti pensionati con giovani brillanti e motivati. Personalmente, per parlare di “persone di qualità”, sarei partita da questo dato. La seconda considerazione assente è che la premialità del sistema universitario nasce per volontà della ministra Gelmini con un peccato originale: invece di istituire un fondo dedicato, con risorse proprie per gratificare le performance migliori (come ogni premio) – obiettivo condivisibile – si decise, in modo velleitario e demagogico, di ricavarlo dal Fondo ordinario di funzionamento, peraltro dopo averne definito la drastica riduzione progressiva negli anni a venire (si vedano le cifre di cui sopra). Il combinato disposto del taglio e della incongrua collocazione della premialità all’interno del finanziamento che dovrebbe servire a far fronte all’attività quotidiana del sistema universitario – che quindi crea un sistema di vasi comunicanti – ha prodotto l’illogicità richiamata precedentemente: vale a dire un premio limitato da clausole di salvaguardia, affinché la gratifica per alcuni non diventi una penalizzazione troppo forte per altri (come se, in una competizione sportiva, l’ultimo arrivato venisse punito per la sua scarsa prestazione). In questo contesto diventa però ancora più illogico chiedere che la quota premiale aumenti! Semmai, occorrerebbe fare ciò che non fu fatto nel 2008: cioè istituire un fondo premiale separato da quello di funzionamento ordinario (e si potrebbero utilizzare, per iniziare, le risorse destinate ai dipartimenti eccellenti), incrementandolo fino a soddisfare le necessità del fabbisogno calcolato sulla base di un buon modello di costo standard (ma di questo parlerò nei prossimi giorni).
Vengo all’ultimo elemento di dissenso.
Sono in molti – Terlizzese tra questi – ad invocare per il nostro sistema universitario il modello piramidale: pochi atenei di eccellenza al vertice che attraggono i docenti e gli studenti migliori, una fascia intermedia di atenei attivi nella ricerca che aspira al vertice e una base più larga di università prevalentemente dedite all’insegnamento (non mi è chiaro come si possa essere realmente università senza una buona attività di ricerca, ma soprassediamo). Ora, sorvolo sulla abusata retorica dell’eccellenza e mi chiedo se non valga la pena di riflettere sui risultati del nostro sistema universitario prima di domandarsi se sia davvero necessario cambiare modello. Come ho già avuto modo di dire commentando l’ultima graduatoria internazionale delle università, il nostro Paese consegue un risultato di tutto rispetto: il 20% degli atenei nostrani è inserito tra i primi mille al mondo, mentre – prendendo a prestito lo studio di Alfonso Faggetta – negli “Usa sono solo l’8,4 per cento e in Francia la percentuale scende al 7,5 per cento”. In altre parole, se alcuni Paesi puntano su poche, blasonate eccellenze, che portano indubitati vantaggi a pochi studenti, da noi è tutto il sistema ad essere mediamente di alta qualità. Il modello piramidale, allora, porta davvero vantaggi al sistema-paese?
Sia chiaro, questa considerazione non è un invito a lasciare tutto così com’è: anzi, è vero il contrario! Alcuni suggerimenti di modifica delle policy le ho accennate e molto altro è da affrontare, a partire dal tema, generale, dell’accesso all’università (per aspiranti docenti e studenti, anche se, rispetto a loro, ci attendiamo qualche segnale di miglioramento dalle misure per il diritto allo studio messe in campo con l’ultima legge di bilancio). Ma per migliorare il sistema, bisogna conoscerlo (ed amarlo).
Pubblicato il 27 Luglio 2017
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