Ecco il testo del mio intervento di oggi, sabato 22 aprile, a Novi di Modena in occasione delle celebrazioni per il 72esimo anniversario della Liberazione del Paese:
Signora sindaca, autorità civili, militari, partigiani e combattenti, care cittadine e cari cittadini,
il 22 aprile 1945, 72 anni fa, come gran parte della provincia modenese Novi veniva liberata finalmente dalla dittatura nazista e fascista.
I testimoni raccontano di una giornata ventosa, per certi versi indecifrabile. Gli scontri a fuoco proseguirono per tutto il giorno, tra tedeschi e fascisti e i partigiani insorti, fino a quando in serata arrivò la colonna motorizzata americana. E allora si capì che la guerra era finalmente finita.
Il 25 aprile, giorno della Festa nazionale, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella onorerà il nostro territorio della sua presenza. Le sue riflessioni, immagino, si riferiranno al valore unitario di questa giornata – aspetto fondamentale e troppo spesso appannato dal dibattito pubblico – e sul senso etico della lotta di Liberazione. Visiterà anche l’ex campo di transito di Fossoli – un luogo straordinario, troppo a lungo sottovalutato rispetto al suo valore simbolico perché è il condensato materiale delle grandi tragedie e vicende del ‘900, prima campo di prigionia militare, poi di transito per ebrei e oppositori politici al regime verso i campi di concentramento e di sterminio nazisti, poi, dopo essere stata la sede della straordinaria esperienza di Nomadelfia di don Saltini, fu per oltre vent’anni ricovero e residenza dei profughi dalmati e giuliani, tanto da essere noto come villaggio San Marco. Un luogo che condensa in sé i buchi neri della nostra storia recente e che ogni giorno che passa ci invia un muto messaggio di non dimenticare ciò che è stato. A tutti noi tocca raccogliere quel messaggio e dargli voce. È una visita importante quella di martedì, che segue, finalmente, il tangibile e concreto interesse dello Stato nel Campo, grazie ad un finanziamento – il primo della storia repubblicana – voluto dal Governo.
Vittorio Foa scrisse che il giorno della liberazione fu “un’ondata irresistibile di gioia in tutto il Paese”. Riuscite ad immaginare cosa significò quel giorno, dopo aver vissuto la ventennale dittatura fascista e l’occupazione nazista, che negli ultimi mesi del conflitto si era fatta più feroce, più accanita, più fanatica? Sì, immagino che davvero sia stata una irresistibile, e progressiva ondata di gioia mano a mano che si aveva la consapevolezza di aver riconquistato o conquistato diritti di cittadinanza persi o mai goduti. Una condizione, semmai, che facciamo fatica a immaginare, oggi. E questo è uno dei problemi delle democrazie mature, cioè dare per scontata che la libertà, l’autodeterminazione, il rispetto degli altri siano condizioni date per sempre. Ma non è così. Così come non è una condizione naturale la Pace, che invece è condizione costruita, determinata dalle scelte politiche. L’Unione europea è stato il pilastro che ci ha permesso il più lungo periodo di pace mai conosciuto, ma i venti internazionali di guerra non sono mai soffiati così forte, mentre nella casa comune europea combattiamo il fenomeno destabilizzante degli attacchi terroristici.
Violenza di oggi. E violenza di settant’anni fa.
Le cronache dal ’43 al ’45 riferite al territorio modenese riportano una raccapricciante catena di stragi e violenze, una repressione spietata contro i partigiani e i resistenti, e verso la popolazione civile, oggetto di rappresaglie e di rastrellamenti. Una violenza stragista impiegata per fiaccare moralmente l’intera popolazione e per fare terra bruciata intorno ai partigiani, ma nella Prima zona non raggiunsero l’obiettivo: il movimento partigiano ebbe qui vaste dimensioni e godette di un diffuso consenso popolare che consentì di affrontare vere e proprie battaglie campali, come quella di Rovereto del 17 marzo 1945, definito il “giorno più lungo” della guerriglia partigiana della I zona, nel quale la resistenza locale dimostrò tutta la sua maturità militare, etica e politica, nonché il suo profondo radicamento sociale. Peccato non avere il tempo per raccontare questi episodi della Lotta di Liberazione, citarne i singoli fatti, ricordarne i protagonisti come antidoto alla retorica, alla opacità che inevitabilmente si posa su eventi lontani, per ridare vita ad uomini e donne di altre generazioni – i nostri nonni e bisnonni – che hanno fatto scelte importanti, hanno preso decisioni coraggiose, soprattutto hanno anteposto l’interesse di tutti all’interesse personale. Così è stato per Nevio Scannavini, Albano Modena, Savino Forti, Eva Frattini e Remo Nasi – i cinque patrioti che persero la vita nel combattimento di Rovereto, eroi loro malgrado – il cui l’impegno civile, portato alle estreme conseguenze, dobbiamo saper rinnovare, poiché la loro vita è la testimonianza di persone semplici e straordinarie allo stesso tempo, che non si sono sottratte alla responsabilità di agire per il bene comune, che si sono ribellate all’oppressione e alla dittatura spinti dal desiderio di giustizia, dalla necessità di ridare dignità a sé stessi e all’intero popolo italiano. Quante vittime. Quanti lutti. Tra gli oltre 150 caduti partigiani della Prima zona si contano soprattutto giovani, dalle storie personali molto diverse eppure esemplari – per dirla con le parole di Galante Garrone – di quel “rapidissimo risveglio e trapasso di una generazione dal sonno della servitù alla lotta per la libertà”.
Molti, in questa piazza, non hanno vissuto i tragici eventi che precedono la Liberazione, ma ne hanno raccolto la testimonianza diretta da chi ne è stato protagonista, da chi ha subito la violenza, da chi ha provato l’indignazione per i soprusi subiti e la dignità umana calpestata, e da chi, decise di scegliere il campo opposto ai nazifascisti secondo il dettato della propria coscienza, per dare al Paese una nuova stagione, quella della democrazia, dei diritti, della libertà, del rispetto della persona.
Ma i protagonisti di allora, inesorabilmente, ci stanno lasciando e non possiamo permetterci che si disperda la memoria di quanto accadde, di chi si fece partigiano e resistente sulla spinta di un dovere avvertito come naturale e impellente o, come dice Garrone, “di una istintiva necessità d’agire” per sete di giustizia e di equità sociale, per far trionfare la ragione e la civiltà in tempi di barbarie.
Non possiamo far cadere nell’oblio chi scelse di resistere e pagò con la propria vita “affinché tutti avessero le ragioni di vivere da uomini”: sono parole di Francesco Berti Arnoaldi scritte per ricordare l’amico Giuliano Benassi, giovanissimo partigiano arrestato, deportato in Germania e mai tornato, e rendergli onore “nell’unico modo che conta: facendolo conoscere nella lotta per la liberazione perché gli “altri” (i liberati) si ricordino sempre da quali sacrifici nasce questa cosa che pare così naturale, il vivere liberi.”
È questo anche il senso profondo della bella e importante iniziativa voluta dalla presidente Boldrini che, due anni fa, ha aperto le porte dell’Aula a Montecitorio per una solenne celebrazione del Settantesimo della Liberazione. È stato bellissimo vedere quelle donne e quegli uomini, i loro capelli bianchi e i volti segnati dal tempo, emozionati dall’invito, con i fazzoletti al collo delle diverse associazioni intonare Bella Ciao!
Analogo spirito ha mosso l’iniziativa parlamentare, raccolta dalla ministra della Difesa, Roberta Pinotti, di consegnare un attestato accompagnato da una medaglia a tutti i partigiani e patrioti, prima i viventi e poi ai parenti degli scomparsi, nel corso di tante iniziative locali che si sono tenute nel corso degli ultimi 2 anni: anche questo, non dimentichiamolo, è il primo ringraziamento ufficiale che lo Stato ha rivolto a chi 72 anni fa decise di scegliere la parte della Libertà contro la dittatura.
Sono stati, anche questi, momenti molto partecipati, intensi emotivamente, nel corso dei quali abbiamo dato ma, soprattutto abbiamo cercato di raccogliere il testimone dei resistenti per trasformarlo in virtù civiche, in futuro di solidarietà, di equità, di giustizia, una sorta di bussola per orientarci nelle scelte attuali. Il direttore del Museo di Auschwitz, afferma che la visita al campo di sterminio “deve essere uno strumento affinché chi è venuto qui sia capace di porsi domande e reagire quando tornando a casa vede scene di genocidio nel Darfur o sente un discorso razzista contro i rom”. Ecco, l’esercizio della memoria non è collezionare ricordi, ma attualizzare la lezione del passato perché la dignità umana sia sempre affermata come valore assoluto, perché i diritti inalienabili delle persone siano rispettati e difesi sempre e ovunque. Anche oggi, nel nostro Paese. Che domande ci siamo fatti, come abbiamo reagito ai manifesti razzisti che Azione frontale, associazione di chiara ispirazione neofascista, ha affisso fuori dai negozi gestiti da cittadini non italiani a Tor Bella Monaca a Roma? Non si tratta di manifesti protezionistici del commercio italiano, ma di “maschere del ventennio nero”, che proliferano indisturbate, in mezzo a noi. Non dovremmo, pertanto, sentirci tutti chiamati in causa?
Complice la crisi economica ma anche per ragioni più profonde il processo democratico, che è per sua natura un fenomeno dinamico, è in affanno. Penso che tutti noi osserviamo con preoccupazione quanto sta accadendo in Europa, dove crescono forze xenofobe e di destra radicale (attendiamo con ansia il test elettorale francese), e in alcuni Paesi forme di fascismo più o meno esplicito sono al potere. Sì, perché fascismo è oggi – come dice Angelo Del Boca – “l’arbitrio in luogo della giustizia, la disciplina subordinata invece alla parità dei diritti, il razzismo e la retorica”.
Nell’Ungheria di Orbàn o nella Polonia di Kaczynski la svolta in senso autoritario è evidente ed è iniziata con l’intaccare la libertà dell’informazione e i diritti delle minoranze. Questa storia ci riguarda, perché sono due Stati membri dell’Unione europea, della nostra casa comune, che mostra i segni evidenti di una fragilità strutturale e di progetto, che pare derivare dall’aver dimenticato gli ideali post bellici su cui è nata, di solidarietà, di progresso, di libertà, di coesione sociale. Il fascismo, poi, non nasce dal nulla ed è una malattia contagiosa, che non ha confini, che si propaga e si sviluppa se si indeboliscono le difese democratiche, nel senso più profondo e reale di cos’è la democrazia. E la democrazia è soprattutto limite. Limite al potere di qualcuno per garantire il diritto di altri. Limite alla prepotenza per garantire i deboli. Limite alla concentrazione dei poteri perché solo nella loro separazione la democrazia vive.
Ma oggi la democrazia, in Europa e nell’intero mondo occidentale è stretta tra l’incudine della crisi economica e sociale con le sue pesanti ricadute su lavoratori, famiglie, imprese, e il martello dell’antipolitica e delle forze antisistema, che non sono interessate a valutare le diverse responsabilità ma tese a scardinare il sistema di rappresentanza politica. Gli esiti possono essere perversi: pensate che i sostenitori trasversali di Trump dicevano “basta con l’establishment” e ora si trovano un’Amministrazione di banchieri, industriali, militari e sull’orlo di un conflitto mondiale. Non è la prima volta che accade. Gli stessi ingredienti li ritroviamo nella nostra storia dopo la Prima guerra mondiale e furono quegli elementi a generare le condizioni favorevoli alla nascita e allo sviluppo del fascismo. In un saggio di Chapoutot, che analizza le ragioni del consenso popolare al nazismo, si legge: “La crisi economica, tra le altre cose, ha fatto cadere nelle braccia del partito nazionalsocialista legioni di persone socialmente declassate che hanno trovato nelle SA un orgoglio, una missione, un capo, dei compagni, nonché un discorso “rosso-bruno” correntemente egualitario e perfino chiaramente rivoluzionario… L’adesione alle Sa permette dunque di riconquistare, di fronte alla crisi e ai guai del momento, gli elementi di una identità messa a dura prova dal dramma sociale della disoccupazione.”.
Due questioni attraversano queste poche righe, come ha rilevato recentemente Walter Veltroni: identità e sicurezza sociale. Questioni di attualità ieri e oggi. Questioni che nel Novecento furono affrontate in modo da determinare il buco nero della Storia dell’umanità. Ma questo è esattamente il campo di scontro delle imminenti elezioni francesi, e del dibattito pubblico negli altri Paesi europei, incluso il nostro. Come svuotare e ripulire lo stagno nel quale germinano gli elementi proto-fascisti? Affrontando le sfide che abbiamo di fronte, e dal cui esito dipende la qualità della nostra democrazia.
Rafforzare la troppo debole ripresa economica e il tasso di occupazione, per non drammatizzare le disuguaglianze, compromettere la coesione sociale e minare la garanzia dei diritti; permettere alle autonomie locali e territoriali di fare fronte alle sempre maggiori istanze dei cittadini in un contesto di risorse calanti; valorizzare i talenti, soprattutto dei giovani e delle donne per dare speranza e futuro alle giovani generazioni; contrastare l’ostilità e l’intolleranza per le diversità culturali e religiose che si diffondono anche in nome di una mal interpretata idea di identità, mentre la globalizzazione e i flussi migratori sono ormai fenomeni non più emergenziali ma consolidati; risolvere la crisi dell’etica pubblica, che mina il nostro stesso patto sociale; restituire il senso del ruolo alla politica in un contesto di diffuso discredito delle istituzioni e rifondarla culturalmente “perché è stato l’impoverimento culturale che ne ha segnato la decadenza”. come ebbe a dire l’allora Presidente Napolitano; contrastare le mafie e la criminalità organizzata, che si sta infiltrando sempre più in profondità anche in questi territori; debellare la corruzione che rappresenta, quella sì, un muro invalicabile per chi vuole investire nel nostro Paese.
Sono tutti fenomeni degenerativi che non possiamo ignorare e dai quali dipende la qualità della nostra democrazia e forse la sopravvivenza stessa del sistema democratico. Ma oggi è un giorno di festa. Certo, ci ricorda il buco nero nazi-fascista, la tragedia della II Guerra Mondiale e l’orrore della Shoah, ma è anche un tributo alla speranza.
Nonostante gli orrori indicibili perpetrati nei campi di sterminio, nonostante la perdita delle libertà individuali, la violenza e la sopraffazione, ciononostante, il senso di umanità continuò a pulsare, così come continuò a pulsare la solidarietà e il rispetto per gli altri anche a danno della propria vita, e a pulsare fortemente fu anche quell’etica civile che nella pace, nella libertà e nella giustizia individuava i propri valori, così come testimonia la scelta di tante donne e tanti uomini di Resistere, di dire No alla sopraffazione, alla dittatura, alla paura.
W la Resistenza, W la libertà che ci ha dato!