UN Paese che ha ripreso a camminare, non certo a correre”: sintetizza cosi
il Censis il suo rapporto annuale, con un messaggio venato di chiaroscuri.
UN Paese in cui gli indicatori volgono al segno “più” ma con grande fatica
(una “Italia dello 0 virgola”): ancora portato a rinchiudersi in un
“recinto tranquillizzante ma inerte”; immerso “in un clima di mediatica
attesa e di annuncio della ripresa che però non si tramutano in un forte
investimento collettivo”. Un Paese che rimane esposto al rischio di un
“letargo esistenziale” ma che si è comunque rimesso in movimento, sia pur
in modo stentato e contradditorio: segnale non irrilevante se si pensa al
Paese sfiduciato e sfibrato disegnato ancora l’anno scorso dal Censis
(“dopo anni di trepida attesa la ripresa non è arrivata e non è data per
imminente”). È davvero lungo il tunnel che abbiamo percorso: già nel 2007
del resto, alla vigilia della grande bufera, il Censis aveva parlato di
“malattia dell’anima”, di una società ripiegata su se stessa e sempre più
attraversata da un’illegalità quotidiana e diffusa. Una società indebolita
e quasi incapace di reagire alla prolungata emergenza provocata poi dalla
crisi internazionale. Esposta da allora all’erosione continua di redditi,
consumi e — soprattutto — speranze: nel 2010 il rapporto delineava
un’Italia “senza più legge né desiderio” e “incapace di sognare”, e ne
diventavano simbolo i moltissimi giovani che non studiano, non hanno lavoro
e non lo cercano neppure (un macigno che tuttora permane, come il rapporto
di quest’anno ricorda).
Veniva così alla luce un “disastro antropologico” di più lunga durata,
annotava il Censis alla fine del 2011. L’anno in cui l’irresponsabilità
berlusconiana aveva fatto intravedere anche per l’Italia un “rischio
greco”: mesi difficilissimi, segnati anche da un deterioramento della
nostra immagine internazionale “vissuto un po’ con dolore e un po’ con
vergogna”. Il fondo più buio di una deriva che l’azione del governo Monti
arrestò quasi sull’orlo del baratro senza riuscire però a ridare slancio al
Paese (“non è scattata la magia dello sviluppo fatto da governo e popolo”
si annotava alla fine del 2012): di qui le difficoltà degli anni
successivi, segnati dal “problema della sopravvivenza” e dall’incapacità di
far interagire e rendere trainanti gli elementi di vitalità pur presenti in
settori dell’economia, della società, della cultura.
Di “sospensione delle aspettative” il Censis parlava ancora l’anno scorso,
e in questo quadro possono essere meglio apprezzati i primi segnali di
ritrovata fiducia di quest’anno, dalla crescita dell’acquisto di beni
durevoli al dinamismo del mercato immobiliare, in un panorama di più
generale ripresa dei consumi ma segnato al tempo stesso da nuovi squilibri
sociali (alimentati anche dal restringimento del welfare). Segnato da una
ripresa dell’occupazione che non coinvolge ancora i giovani, che pur
pensano al futuro con maggior ottimismo (un altro dato da capire meglio).
Rimane molto rilevante inoltre il denaro non investito ma immobilizzato in
un “risparmio cautelativo” volto a fronteggiare le emergenze (non senza
ragioni, dato che l’anno scorso vi hanno dovuto attingere più di tre
milioni di famiglie).
Permangono insomma i tratti di una “società a bassa consistenza e quindi
con scarsa autopropulsione”, poco dinamica. Vi è certo stato un
“volontarismo della politica”, si osserva — in positiva controtendenza
rispetto a rassegnazione e pessimismo — ma non è riuscito a ridare slancio
all’economia e alla società per l’assenza di un progetto generale, di
un’idea di futuro capace di radicarsi nel corpo vivo del Paese. Per una
enfatizzazione della decisione di vertice, a partire dall’azione di
governo, che non ha saputo costruire una vera “catena di comando”. Non ha
saputo penetrare nelle pieghe reali della società: non vi è stata dunque
quella “osmosi tra primato della politica e mondi vitali sociali” che ha
caratterizzato le fasi più espansive della nostra storia. E questa mancata
dialettica fra politica e società ha lasciato la cultura collettiva
“prigioniera della cronaca”, del giorno per giorno e dei messaggi più
negativi. Ha lasciato ancora isolati gli elementi e i fattori più dinamici,
troppo spesso lontani dalla luce dei riflettori. Troppo spesso
sottovalutati o considerati solo marginalmente: “il resto”, per dirla con
il Censis, rispetto agli ingannevoli pilastri delle narrazioni prevalenti.
Eppure è proprio a questo “resto” che occorre guardare, sottolinea il
rapporto: ai settori capaci di vincere le sfide internazionali, ai nostri
tradizionali punti di forza nella stessa manifattura e soprattutto alle
sinergie e alla “ibridazione” di differenti comparti e competenze, capaci
di dar vita ad un nuovo Italian style (dall’abbigliamento
all’agroalimentare e al turismo).
Si aggiungano altri elementi significativi, relativi ad esempio
all’immigrazione: su di essa ha certo agito il peso della crisi, si annota,
ma hanno operato anche significativi elementi di “integrazione molecolare”
capaci di evitare, forse, il “rischio banlieue”.
Non mancano altri segnali positivi, pur “minori”, connessi anche agli stili
di vita. Né mancano, sul versante opposto, le forti inquietudini connesse
alla crescente sfiducia nei confronti delle istituzioni politiche e
dell’Europa. Vi è in realtà una grande domanda sottesa all’intero rapporto:
qual è il Paese che esce dagli anni della crisi? Quali ne sono le
potenzialità e le modificazioni profonde, le propensioni generali e le
pulsioni particolaristiche? Non siamo rimasti uguali, il Censis ce lo
ricorda, e questa domanda non può essere elusa.
Pubblicato il 6 Dicembre 2015