I numeri non sono un’opinione, anche quando si parla di flussi migratori. Al di là delle interpretazioni di questi giorni, più o meno emotive e strumentali, l’analisi dei due studiosi pubblicata oggi da Repubblica riporta l’asse su un equilibrio di cifre che potrebbe fare considerare l’emigrazione non come un’emergenza ma come una risorsa
Ma servono nuovi incentivi e riforme serie
Massimo Anelli e Giovanni Peri
Vorremmo raccontare una storia di migranti, partendo dai dati invece che dalle immagini. Sarà meno suggestiva, ma è accurata. I dati che raccontiamo misurano flussi e caratteristiche delle persone che attraversano i confini dell’Italia. In questa storia più di 100mila persone hanno lasciato il loro paese per cercare lavoro e fortuna in un altro nel 2014: più del doppio rispetto al 2010. Di queste più della metà è tra i 25 e i 44 anni di età, il periodo più produttivo della vita lavorativa. La maggior parte sono migranti per ragioni economiche e spesso lasciano situazioni di scarse prospettive. Alcuni di loro saranno professionisti e scienziati, altri camerieri e cuochi.
Questi migranti che attraversano i confini del nostro paese ogni anno potrebbero provocare grande opposizione nelle aree che li ospitano. Se avessero viaggiato su barche ne avremmo vista una alla settimana con più di 2mila persone tutto l’anno. Ma non abbiamo visto nulla e quindi per noi non esistono. I dati da noi descritti sono relativi agli italiani che hanno lasciato l’Italia per andare a risiedere all’estero. Sono stati ottenuti dall’Anagrafe degli Italiani residenti all’estero (Aire). Anche se tutti i richiedenti asilo in Italia trovassero un modo per rimanervi, sarebbero meno della metà degli italiani che partono.
Non vogliamo equiparare le condizioni di emergenza reale dei migranti del Nord Africa a quella degli italiani che emigrano per scelta e in sicurezza. Tuttavia comparare questi flussi stimola due importanti riflessioni. Una ha a che fare con l’impatto economico dei migranti e l’altra riguarda la necessità di cambiare il modo in cui l’Italia considera la collaborazione con il resto d’Europa.
L’enfasi sui potenziali costi economici degli immigrati sollevata in questi giorni è mal riposta. La perdita fra il 2010 e il 2014 di 200mila giovani, dinamici e produttivi, il cui contributo all’economia italiana sarebbe grandissimo, è costo economico molto più significativo rispetto all’arrivo dei rifugiati. In un mondo integrato è fisiologico che le persone migrino tra paesi. In tale prospettiva i giovani immigrati sono potenzialmente una risorsa e potrebbero rimpiazzare i tantissimi italiani in partenza. È stato così in Irlanda dove la grande emigrazione (verso l’Inghilterra e gli Stati Uniti) è stata controbilanciata da grande immigrazione (in gran parte dall’Est Europa) che ha stimolato il suo boom economico (tra il 2000 e il 2010).
Questo necessita di politiche di immigrazione lungimiranti, basate sulle opportunità di lavoro in certi settori e sulla previsione e gestione di flussi futuri. Inoltre, riforme del mercato del lavoro che introducano più competizione e flessibilità, aiuterebbero anche l’immigrazione a essere motore di occupazione e crescita. Vari studi mostrano che negli Stati Uniti gli immigrati, anche quelli con poca istruzione, stimolano la crescita economica con il loro lavoro e i loro consumi. Nei prossimi decenni molti abitanti di vari paesi dell’Africa e del Medio Oriente vorranno emigrare. Potremmo incentivarne un numero ragionevole a farlo, legalmente, come studenti, lavoratori e imprenditori, stimolando l’economia, creando connessioni tra paesi e infrastrutture che possono servire anche a gestire emergenze e rimpatriare chi non è legale.
La seconda riflessione evidenzia l’ingenerosità con cui l’Italia critica il resto d’Europa per la mancanza di aiuti nella gestione della “crisi dei migranti”. L’Italia non ha accettato negli ultimi anni che un minimo numero di rifugiati tra i richiedenti asilo che arrivavano ai loro confini. La Germania è il paese europeo che ha accolto più rifugiati, arrivando a più di 30mila nel 2014. L’Italia non ne ha mai accettati più di 3.500 all’anno. Allo stesso tempo, il resto d’Europa ha accolto negli ultimi due decenni centinaia di migliaia di nostri connazionali. Secondo l’Aire sono 873mila gli italiani migrati nel resto d’Europa dal 1992 a oggi e tuttora residenti all’estero. Di essi 221mila sono in Germania (il paese che ne accoglie di più), 120mila in Francia e in Regno Unito.
Il movimento internazionale di persone va visto come motore di crescita e sviluppo. L’immigrazione in Italia andrebbe governata strategicamente come risorsa per la crescita invece che affrontata come emergenza. Ma per sfruttare i potenziali benefici dell’immigrazione ci vuole pianificazione dei flussi, accesso al lavoro, incentivi corretti, e migliori politiche di immigrazione. Bisognerebbe ammettere legalmente un ragionevole numero di immigrati e dargli le stesse opportunità che vengono date agli italiani che emigrano, e per il cui successo economico e carriera dovremmo essere grati al resto d’Europa.
Massimo Anelli insegna alla Bocconi, Giovanni Peri è un economista della University of California