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“Un nuovo orgoglio”, di Andrea Bonanni – La Repubblica 06.09.15

Ci sono tutti gli ultimi settant’anni di storia tedesca, e dunque anche della nostra storia, della storia di noi europei, dietro gli applausi con cui la gente ha accolto alla stazione di Monaco di Baviera i profughi siriani reduci dall’ultimo
muro.
C’è la paura e la comprensione profonda, marchiata nei nostri geni, degli orrori della guerra da cui loro stanno fuggendo come noi siamo fuggiti settant’anni fa. C’è la vergogna per le sofferenze e le umiliazioni che hanno dovuto patire in un Paese, l’Ungheria, che pure si proclama europeo. C’è la memoria esaltante dell’ultima “grande fuga” liberatoria che ha costruito l’Europa: quella seguita al crollo del muro di Berlino e delle dittature comuniste. C’è l’empatia istintiva per chi arriva in un mondo nuovo e sorride, e ci vede luci di speranza che in noi si sono forse offuscate. Ma soprattutto c’è l’orgoglio di dire: ecco, non abbiamo costruito tutto questo, la pace, il benessere, la libertà, per chiuderli in una fortezza ma per offrirli a chi vuole capire e condividere i valori per cui ci siamo battuti. C’è, molto semplicemente, la soddisfazione e il coraggio non tanto di essere buoni, ma di essere giusti.
Questo coraggio, e qui parliamo di vero coraggio politico, ha oggi il volto assai discusso di Angela Merkel. Non è stato facile, per la cancelliera tedesca, decidere l’altra notte di aprire le frontiere della Germania. Come non è stato facile, per Renzi, all’indomani degli ottocento morti sulla nave capovoltasi nel Mediterraneo, andare a Bruxelles e dire: non possiamo più respingerli, dobbiamo salvarli costi quel che costi. Ci sono prezzi da pagare, per queste scelte. E non sono solo i dieci miliardi di euro che l’accoglienza dei profughi sottrarrà quest’anno al bilancio tedesco. Sono le paure, le angosce, le fobie di un popolo europeo che per troppi anni si è cullato, ed è stato cullato, nell’illusione che nulla, mai più, sarebbe cambiato se non in meglio. E soprattutto che nessun cambiamento avrebbe mai più richiesto nuovi sforzi, nuove fatiche, fosse anche solo quella di rimettersi in discussione. Sfidare queste paure, smuovere le acque di questo stagno mentale, vuol dire, oggi, assumere la leadership dell’Europa. C’è chi lo sta facendo, e chi no.
Il sorriso felice ed incredulo del bimbo siriano in braccio alla madre, che stringe al petto il cagnone di peluche ricevuto da uno sconosciuto alla stazione di Monaco fa da contrappasso, non solo emotivo, al corpicino senza volto e senza vita del piccolo Alan affogato al largo della Turchia. Vuol dire che quella gente si può salvare. Vuol dire che loro possono continuare a sperare in un futuro diverso. E noi con loro, grazie a loro. Costruire questo futuro di fronte a un terremoto demografico come quello che stiamo vivendo è il compito della nuova leadership che i lunghi mesi della tragedia migratoria stanno facendo lentamente emergere in Europa.
Ma per costruire il domani, e non sarà facile, la leadership europea deve ritrovare le ragioni, le emozioni e le speranze che sono sepolte nel nostro passato. Non le radici cristiane, invocate da Orbán per erigere muri contro i disperati in fuga, ma le radici umanistiche, solidali, libertarie, democratiche, che insieme ai veri valori cristiani hanno costruito il volto luminoso di questo Continente bifronte. La storia dell’Europa è quella di un perenne confronto tra le sue due anime: paura, rabbia e disprezzo da una parte; speranza, rispetto e solidarietà dall’altra. La tragedia dei migranti ci costringe ancora una volta a scegliere. Non ci sono vie di mezzo: non si può accogliere i migranti avendone paura. Non si può respingerli fingendo di rispettarli. Non solo i nostri governi, ma tutti noi, nelle nostre case, davanti ai nostri televisori, sulle piazze delle nostre stazioni prese d’assalto, dobbiamo scegliere. I leader di domani saranno quelli che ci aiuteranno a farlo.