I dati Istat sull’occupazione e sul Pil sono stati commentati ieri abbondantemente (e, purtroppo, con minore interesse per il dato in sé rispetto al tasso di polemica politica). L’articolo di Fubini ha il merito di richiamare alcuni dati meno coinvolti dal dibattito eppure molto interessanti: quelli sull’aumento delle donne laureate (superano i colleghi maschi) e sull’effetto positivo che la formazione superiore ha sul tasso di occupazione. Due dati che devono portare alle politiche universitarie maggiori risorse: si tratterebbe del miglior investimento attivo per il lavoro e per la parità di genere.
CORRIERE DELLA SERA 02.09.15
Dentro i numeri
L’aumento degli inattivi. Istruzione, sorpasso delle donne
di Federico Fubini
Ormai le statistiche sono la colonnina di mercurio della politica. Negli ultimi anni la potenza dei software per raccogliere e elaborare dati ne ha fatto esplodere la produzione. La vita di qualunque governo ne è scandita ogni settimana e trattare una cifra passeggera di crescita o disoccupazione come un voto al premier di turno è una tentazione a cui non resiste più nessuno.
Ovviamente, è giusto così. I governi giocano sempre un ruolo: sia quando l’occupazione va male, com’è successo finora, sia quando inizia a crescere e diventa stabile un po’ più spesso come sembra che stia accadendo ultimamente. Il solo problema è che l’ossessione per gli spostamenti da zero virgola di ogni mese, a uso e consumo della politica, rimuove dalla visuale il quadro che migliaia di dati stanno componendo sul Paese di questi anni e su quello che sarà. Se solo si mettessero insieme quei punti, si vedrebbe che per certi aspetti i blocchi di partenza dell’Italia nel 2015 sono molto più indietro rispetto alle altre economie alle quali il Paese si paragona. Nel frattempo però nel mondo del lavoro sono in corso slittamenti sotterranei negli equilibri di potere fra uomini e donne, e fra occupati di alta e bassa qualità. Presto queste faglie sotterranee si apriranno alla luce del sole e solo in parte – solo per le donne – saranno buone notizie. In prospettiva la figura più vulnerabile d’Italia è quella oggi quella prevalente: maschio, bianco (non straniero), di mezza età, di un livello di istruzione non eccelso. Per la verità non lo si inizia ancora a vedere nei dati dell’Istat di ieri, che non fanno favori né dispetti a nessuno. L’istituto statistico rileva che in luglio si registrano 44 mila occupati in più, al netto degli effetti della stagione turistica, ma anche che gli «inattivi» nel Paese crescono di 99 mila unità: questi ultimi spesso sono i demotivati, gli scoraggiati, coloro che magari inizierebbero a lavorare fra due settimane se solo sperassero di trovare un posto, ma non lo cercano neanche più. Gran parte dell’aumento degli «inattivi» si concentra fra le donne e i giovani. E la somma dei due fattori – occupati più «inattivi» supplementari di luglio – dà nel complesso 143 mila disoccupati in meno.
La lezione dell’ultima infornata dell’Istat è dunque che, specie per l’Italia, ha più senso misurare gli occupati che la percentuale di disoccupazione. Questa infatti non cattura il numero, senza paragoni in tutto l’Occidente, di persone sarebbero in età da lavoro ma non cercano, o sono già in pensione benché pieni di energie, oppure sono giovani che non studiano più. È qui che gli smottamenti si stanno verificando. Ed è qui che le donne, per ora in terribili difficoltà (in Italia meno di una su due è occupata, al Sud meno di una su tre), possono trovarsi in posizione di forza sugli uomini: se non subito, sicuramente fra qualche anno. Quanto a questo i dati dell’Ocse, il club delle democrazie avanzate, sono espliciti nel mostrare come l’Italia sia indietro. Sulla carta ha un tasso di disoccupazione quasi della metà rispetto alla Spagna. In concreto però la quota di occupati in Italia è più bassa che in Spagna ed è fra le peggiori fra i 36 Paesi censiti dall’Ocse. Poco più indietro ci sono solo Grecia, Turchia e Sudafrica. Se si guarda poi alla partecipazione alla forza lavoro, cioè alla somma di occupati più disoccupati, l’Italia è ultima nell’Ocse: appena il 49% della popolazione in età da lavoro.
Il problema del Paese va dunque al di là della disoccupazione, perché pochi sono inclusi nel sistema produttivo. Fanno eccezione i laureati: anche qui l’Italia è agli ultimi posti dell’Ocse, ma per chi ha un’istruzione superiore il tasso di occupazione è pur sempre elevato al 78%. Spiega dunque qualcosa che l’Italia abbia la quota di laureati più bassa dell’Unione europea. L’istruzione formale non sarà tutto, ma aiuta. È qui però che è in corso una crisi, sorda e drammatica: questo Paese è un caso unico in Europa nel quale le iscrizioni all’università calano invece di aumentare, perché solo le donne cercano di studiare sempre di più. L’Istat segnala che dal 2008 in poi le immatricolazioni all’università sono scese ogni anno e nel 2012 ce ne sono state 30 mila in meno rispetto a prima della crisi. Nel frattempo le ragazze hanno superato i ragazzi: dieci anni fa i laureati e le laureate erano più o meno in numero uguale, ma ormai circa il 60% dei nuovi diplomi va alle ragazze e già oggi in Italia le donne con un’istruzione superiore sono 700 mila più degli uomini. L’uomo è una categoria in pericolo, ma ancora non se n’è accorto .