Ottimo articolo. Semplice nella prosa senza rinunciare a contenuti complessi. Lo consiglio a chi ha pregiudizi, ancora oggi, nei confronti del nostro sistema universitario. E a chi deve assumere – a breve – le decisioni per la prossima legge di stabilità: se ci interessano davvero il futuro è la crescita del Paese, allora non possiamo più permettersi di non incrementare i finanziamenti agli atenei.
La Stampa
Università, più fondi per crescere
Il primo dato è che l’università italiana è chiaramente sottofinanziata rispetto ai partner europei. Lo è da sempre, ma dal 2008 la situazione è ulteriormente peggiorata
juan carlos de martin
L’Università italiana deve migliorare? Deve essere valutata? Ha bisogno di nuove idee per il futuro? In tutti e tre i casi la risposta è un sonoro «sì», un «sì» sul quale concordano tutti, dai professori ai politici, dagli studenti, alla società civile. Esclamato «sì», però, il dibattito inizia subito a ingarbugliarsi, generando molto più calore che luce.
Il problema, infatti, sta a monte, ovvero, nell’analisi della situazione: qual è lo stato dell’Università italiana? Insufficiente, discreto, ottimo? I numeri e le statistiche cosa dicono, anche guardando al contesto internazionale? Solo partendo da una solida base fattuale è possibile condurre una discussione produttiva. E allora proviamo a mettere in fila alcuni dati essenziali.
Il primo dato è che l’università italiana è chiaramente sottofinanziata rispetto ai partner europei. Lo è da sempre, ma dal 2008 la situazione è ulteriormente peggiorata. Questo è un dato fondamentale per capire la situazione, un dato che non si può liquidare dicendo: «Sì, d’accordo, ma a parte quello…». No, non possiamo mettere da parte nulla; parlare di finanziamenti, infatti, è come chiedersi se il campione che rappresenta l’Italia alle Olimpiadi può permettersi scarpette da corsa o se deve invece correre con gli zoccoli. Chi direbbe nel giudicare un corridore: «Sì, va bene, ma a parte gli zoccoli…?» Nessuno.
Il secondo dato è che – nonostante il sottofinanziamento – la produzione scientifica italiana è al livello delle più ricche Francia, Inghilterra, Germania. Qualcosa evidentemente funziona nelle università italiane, come peraltro dimostrato anche dalle migliaia di giovani ricercatori che, costretti a emigrare, vengono assunti dalle migliori università straniere. Il terzo dato è che in Italia ci sono pochi laureati – non troppi. Così pochi che, se continuiamo così, presto saremo l’ultimo paese Ocse per quantità, scavalcati persino dalla Turchia.
Il quarto dato è che le università in Italia sono probabilmente un po’ meno di quante dovrebbero essere – non troppe come spesso si dice. In Italia, infatti, ci sono un milione 700 mila studenti. Questi studenti secondo la Commissione Europea dovrebbero frequentare una rete di università distribuite su tutto il territorio nazionale (e non solo in alcune regioni) e ciascuna università dovrebbe avere non più di 20 mila studenti per essere in linea con le migliori pratiche internazionali. Secondo questi parametri, in Italia dovrebbe esserci 85 università, ovvero, una ventina di più di quelle che ci sono in questo momento (non contando alcune piccolissime realtà).
Il quinto e ultimo dato, ovvero, le classifiche internazionali. È un dato storico incontestabile che l’Italia non ha mai avuto università «dominanti» come Oxford e Cambridge nel Regno Unito o Harvard e Stanford negli Usa. Il sistema universitario italiano, pur con numerosi atenei dalla storia prestigiosa, è sempre stato distribuito, non concentrato, un mix di vari livelli di qualità, gomito a gomito, a seconda dei dipartimenti, se non dei corridoi. E’ un difetto? Per le classifiche internazionali sì, visto che misurano le cosiddette «eccellenze» (peraltro suscitando molti e fondati dubbi metodologici). Ma se le classifiche misurassero invece il livello medio dei sistemi universitari nazionali, l’Italia reggerebbe tranquillamente il confronto con i principali paesi europei.
Dunque tutto bene? Certamente no. Come dicevo all’ inizio, infatti, tutti concordano sul fatto che la situazione è senza dubbio migliorabile. Potremmo innanzitutto portare il finanziamento alle università almeno alla media europea. Potremmo definire forme di valutazione di ricerca e didattica discusse e condivise dalla comunità accademica, non imposte dall’alto come adesso. Potremmo identificare modi per aiutare le sedi universitarie in difficoltà a migliorare, invece di tagliar loro i fondi, innescando una spirale perversa. Insomma, un dialogo serio e costruttivo sul futuro dell’università è possibile e urgente. Ma riusciremo a farlo solo se ci baseremo sui fatti e se rinunceremo alle scorciatoie. Come amava dire il grande giornalista americano H.L. Mencken: «Per ogni problema complesso esiste una risposta chiara, semplice – e sbagliata».