Da ieri sera, qualcosa è cambiato, per tutti. Dopo 41 anni di inchieste e processi, il massacro del 28 maggio 1974 in piazza della Loggia — una bomba uccise otto persone durante una manifestazione antifascista — non è più una strage impunita.
Non lo è grazie a due condanne di grande peso e significato. La Corte d’assise d’appello di Milano, nel giudizio di rinvio (dopo l’annullamento da parte della Cassazione nel febbraio 2014, il dibattimento era cominciato a fine maggio) ha condannato come organizzatore della strage il capo dell’organizzazione terrorista d’estrema destra Ordine Nuovo nel triveneto, Carlo Maria Maggi (uscito indenne dalle inchieste per piazza Fontana), e il suo sodale Maurizio Tramonte, poco più che ventenne all’epoca dei fatti, che era al contempo militante dell’Msi, membro della struttura eversiva capitanata da Maggi e, soprattutto, confidente del Sid, il servizio segreto militare dell’epoca. Proprio le note informative in cui, attraverso le confidenze di Tramonte, ossia la fonte “Tritone”, il Sid seppe quasi in presa diretta dei propositi stragisti del Maggi in nord Italia e delle manovre di riorganizzazione del suo gruppo clandestino, dopo che nel 1973 O.N. fu messo fuori legge, sono state cruciali per arrivare alla condanna.
La sentenza della Cassazione del 2014 aveva inchiodato Maggi a una posizione difficilissima. Inesorabile l’elenco degli elementi a suo carico (la sentenza si può leggere e scaricare gratuitamente dal sito fontitaliarepubblicana.it). Suo l’esplosivo, gelignite, di cui era fatto l’ordigno. Faceva parte delle scorte stivate nella cantina del ristorante “Allo Scalinetto”, una trattoria veneziana a due passi da san Marco. L’avevano confezionato e trasportato per suo conto i defunti Carlo Digilio e Marcello Soffiati, entrambi membri di Ordine Nuovo, la cui partecipazione all’attentato bresciano, sebbene post mortem, era già passata in giudicato. Indubitabile il fatto che Maggi fosse un capo con responsabilità operative, con propositi stragisti. «Brescia non deve restare un fatto isolato!» disse dopo la bomba di piazza Loggia.
Arduo che questo appello-bis possa essere ribaltato in Cassazione. Potrebbe, dunque, essere la prima condanna per strage di un leader del terrorismo nero di questo calibro a passare in giudicato. Una cesura, uno spartiacque che potrebbe metter fine agli sproloqui di quanti, negli ultimi decenni, hanno provato a mistificare la verità storica sulle stragi del quinquennio 1969-’74: stragi di chiara e indubitabile matrice fascista. Con la connivenza dei servizi segreti. La Cassazione aveva bacchettato con severità i giudici bresciani per aver liquidato troppo facilmente la posizione di Tramonte: informatore dei servizi, ma non infiltrato al servizio della giustizia. Non era solo membro di Ordine Nuovo, ma partecipava pure, con Maggi, a riunioni organizzative d’alto livello. Come quella a casa di Gian Gastone Romani, leader sia del Msi che di Ordine Nuovo, tre giorni prima della bomba di Brescia (Tramonte ne uscì dicendo all’amico che lo aspettava «quelli sono tutti pazzi»). Il supplemento d’istruttoria effettuato a Milano ha accertato che la mattina del 28 maggio egli si trovava in piazza: fu forse uno dei “basisti”? Attendiamo le motivazioni. Di certo, la sua condanna getta una luce inquietante sui servizi. Sapevano, tacquero, e allontanarono gli inquirenti dalla verità — da subito. Questa sentenza suggella definitivamente la verità sui depistaggi. Gian Adelio Maletti, che, con il capo dei servizi Miceli vide e valutò le informative di Tramonte, e le ritenne così gravi da scrivere di suo pugno, dopo la strage di Brescia, che bisognava dire tutto all’autorità giudiziaria, quando, nell’agosto 1974 fu ascoltato dai magistrati bresciani, nascose le note informative e mentì. Per evitare che, attraverso le parole di Tritone-Tramonte, si accendesse un riflettore sul gruppo eversivo di Carlo Maria Maggi, su quel mondo della destra eversiva con cui — lo sappiamo anche dalle inchieste su piazza Fontana — il Sid intratteneva fitti legami. Maletti è già stato condannato per aver depistato le indagini sulla strage di Milano.
Nonostante il mostruoso dispiegamento di forze per garantire l’impunità agli stragisti, la goccia ha scavato la roccia, il meccanismo del depistaggio è stato, almeno in parte, per una volta, inceppato. Quarantuno anni non sono passati invano. Grazie al lavoro paziente e generoso di tanti uomini e donne, giudici, magistrati, avvocati, parti civili, il cumulo delle prove, assoluzione dopo assoluzione, s’è fatto così alto da impedire, infine, al masso di precipitare ancora indietro lungo la china dell’impunità. Ora Sisifo può riposarsi. Che quegli otto morti, cinque insegnanti, due operai, un ex partigiano, volti dell’Italia che lottava e sperava, possano finalmente riposare in pace.
Pubblicato il 23 Luglio 2015