Lunedì pomeriggio sono arrivato puntuale alle 18 per partecipare all’assemblea degli industriali, a Modena, nel cuore pulsante della manifattura del Paese. Un filmato di pochi minuti ci conduce per mano tra trattori, robotica, auto da corsa del calibro di Ferrari e Maserati, macchine per la ceramica e la “piastrella valley” di Sassuolo, la maglieria di Carpi e il biomedicale di Mirandola figlio della geniale intuizione di un farmacista che ha dato vita alla prima azienda specializzata nella produzione di apparecchi medicali per dialisi. Hanno invitato me e la squadra di inviati e corrispondenti esteri del Sole 24 Ore in collegamento da New York, Mario Platero, da Pechino, Rita Fatiguso, da Istanbul, Alberto Negri, e da Francoforte, Alessandro Merli, affamati di notizie sul mondo, il loro mercato domestico, per capire che cosa succede dentro i loro territori, in Europa e fuori, pronti a cogliere il senso dei fatti, segnali e intuizioni.
La sala è gremita, nessuno si alza fino alle venti passate da un bel po’, si percepisce interesse e attenzione, li guardo tutti insieme, e mi accorgo che sto scavando nei volti e negli sguardi di gente tosta che custodisce nei cromosomi i segreti del primo miracolo economico italiano: in una terra che viveva solo di agricoltura, sono nati e cresciuti i distretti che hanno conquistato il mondo della grande meccanica e della meccanica di precisione, delle carni e dell’industria dei salumi, della maglieria e dell’abbigliamento, della ceramica e del biomedicale. Capitani d’impresa e multinazionali, tanta manifattura e tanta ricerca, un portafoglio clienti così esigente, globale e diversificato che nemmeno il terremoto può fermare la consegna delle commesse, guai a lasciare varchi alla concorrenza. Mi viene in mente quando all’Istituto italiano di tecnologie, a Genova, mi dicono che il quadrupede più tecnologico per spostare corpi pesanti è pronto ma manca un pezzo di idraulica che al mondo può realizzare solo un’azienda di Mirandola terremotata e che lo consegnerà comunque a giorni, tanto per capire che cosa è lo spirito imprenditoriale emiliano e qual è la capacità di investire e fare innovazione di un tessuto di talenti molto particolare e variegato del bene più prezioso della nostra manifattura. Mi colpisce un passaggio della relazione del presidente, Valter Caiumi, dove si sottolinea che il modello emiliano è fondato su «una realtà industriale diffusa e ancora fortunatamente solida», ma ancora di più dove tradisce qualche emozione nello scandire «abbiamo capito subito che la sofferenza perdurante del mercato interno avrebbe costituito un pericolo troppo forte per le nostre imprese e così abbiamo concentrato tutte le forze per consolidare le nostre capacità di stare sui mercati stranieri» e, soprattutto, quando rivendica che «i risultati ci hanno dato ragione, le esportazioni sono aumentate del 6,2% contro il 4,3% dell’Emilia-Romagna e il 2% della performance nazionale».
Penso quanto sia visceralmente modenese questo capitalismo industriale italiano e quanto sia il mondo a sostenerlo e a tenerlo in vita, quasi che Modena e l’Italia dipendano dal mondo e pure siano come mai artefici e padroni del proprio futuro. Venerdì faccio un salto a Ravenna, dove c’è un presidente degli industriali, Guido Ottolenghi, che ha il coraggio di dire come stanno le cose, denuncia quel “quieto vivere” che produce miseria e impedisce di affrontare i mille tabù della burocrazia e della giustizia italiane, e la sera sono a cena a Ferrara con il presidente degli industriali, Riccardo Maiarelli, e gli amici del Premio Estense. Era anche lui a Modena lunedì, Maiarelli, ed è come se con la testa ritornassimo in quella sala gremitissima e dentro i capannoni di quel filmato. Mi dice: «Tra Bologna, Modena e Ferrara c’è un triangolo che delimita il sistema manifatturiero d’Italia, ricordati che se a Bologna su 100 imprese 23 sono grandi, a Modena e Ferrara sono solo rispettivamente 4 e 3, insomma quello che sopravvive nel mondo è un tessuto strepitoso di piccole e medie imprese e ci conferma che siamo un Paese fatto così, qui ci vorrebbe un rating ad hoc, un meccanismo differente di valutazione e una priorità assoluta nella capacità di erogare credito, concepiamo una società e uno sviluppo in ragione delle grandi imprese e noi siamo un’altra cosa, abbiamo altre esigenze». Non è sicuro di avermi convinto e insiste: «Mi spiego con un esempio. A Matera, abbiamo vinto con il modello degli appartamenti e delle camere diffusi nei Sassi, esattamente come i Sassi di Matera qui dobbiamo parlare di modello di azienda diffusa, ognuno fa un pezzo e tutti insieme facciamo la Ferrari d’Italia, tutti insieme siamo leader nel mondo, ce ne vogliamo accorgere o continuiamo a ignorare la realtà?». Poi si ferma bruscamente, e butta lì: «Chi nasce tondo non muore quadro, come dire questi siamo e di questi che lottano e vogliono farcela, dobbiamo occuparci, senza ipocrisie». Credo che abbia ragione e glielo dico, soprattutto mi convince il non detto, non siamo noi che dobbiamo cambiare per seguire un modello europeo astratto e pieno di bizantinismi, ma è l’Europa che deve capire che cosa è l’Italia e qual è il capitale sul quale deve investire. Prima lo fa e meglio è, per noi, ma anche per se stessa. Modena, Bologna, Ferrara, il triangolo d’oro della manifattura italiana, ci dicono che nel mondo loro crescono da piccoli, fanno quello che nessuno riteneva potessero fare, e non si dispiacerebbero affatto se l’Europa cominciasse a occuparsi di loro, di uomini in carne e ossa e di cose belle che si possono toccare. A quel punto, l’Italia si ritroverebbe più in fretta e l’Europa tutta ne trarrebbe forte giovamento.
Pubblicato il 14 Giugno 2015