E’ la mattina del 5 maggio e nella mia scuola a Torre Maura, a Roma, succursale dell’Istituto professionale Falcone-Pertini, ci siamo solo io e la preside, arrivata dalla centrale per aprire il portone e garantire agli studenti le ore di lezione. Ma di studenti nemmeno l’ombra.
SONO tutti in sciopero insieme agli insegnanti. La preside ci tiene a mostrare una certa serenità, da ammiraglio che non perde la calma, anche quando la nave sembra paurosamente inclinata. Vago per i corridoi deserti con le mani dietro la schiena e penso che qualcosa in questa riforma non è andato come doveva, visto che i miei colleghi sono compattamente, convintamente ostili. Mi sento ancora più dispiaciuto perché ho partecipato a tante riunioni al ministero della Pubblica Istruzione, ormai un anno fa, per progettare la Buona Scuola.
Sono stato proprio io, in una mattinata di luglio, a suggerire il nome. Doveva chiamarsi “la scuola dell’unità e delle convergenze”, o qualcosa di simile, una formula astratta e incomprensibile che alza una cortina di fumo sulla verità quotidiana, e allora presi la parola nel salone dove fu firmata la riforma Gentile e dissi: «La buona scuola, ecco il nome giusto, è semplice, diretto, è quello che i professori, gli studenti, i genitori vorrebbero». E invece mi ritrovo a passeggiare solo soletto negli spazi siderali della mia scuola, senza nemmeno un insegnante con cui discutere. Certo, nella sala professori ho ascoltato per giorni e giorni mille lamentele e qualche volta ho provato a ribattere: «Ci sono aspetti interessanti in questa riforma». I colleghi mi hanno guardato con sospetto, come se fossi un demente o un venduto all’ arroganza del potere. «Diccene una», pretende la professoressa con i tacchi alti e l’aria di chi sa come funziona il mondo: malissimo. Sono tornato con la memoria ai giorni dell’elaborazione, quando tra tecnici e politici ho provato a spingere le mie proposte: «Ad esempio la card da 500 euro per acquistare libri, assistere a spettacoli teatrali. Troppi insegnanti perdono contatto con lo spirito del tempo, con quanto di bello viene prodotto. Dicono che la cultura costa troppo, un fondo cassa personale per aggiornarsi può servire ad andare oltre La coscienza di Zeno.
Gli insegnanti sono l’ossatura della classe intellettuale, è giusto che possano accedere alle novità che rinfrescano la mente e tengono in contatto con gli allievi». Non mi sembra che il mio comizietto abbia fatto breccia. «Erano meglio più soldi per pagare le bollette», ha polemizzato un collega, «sono sette anni che gli stipendi sono fermi, e hanno bloccato gli scatti di anzianità!».
E allora ho provato la strada dei posti di lavoro: «Centomila nuovi assunti non sono pochi, e il prossimo anno ce ne saranno altri sessantamila». Sbuffi, alzate di spalle: «Una sentenza europea ha stabilito che i precari da stabilizzare devono essere di più, il governo non si può sottrarre» precisa il professore pignolo con il borsello a tracolla. Capisco che questo è il punto dolente. Per vent’anni sono state alimentate mille graduatorie diverse, gli abilitati, i semiabilitati, i vincitori di concorsi svaniti nel nulla, le Siss, le Gae, precari di prima classe, di seconda, di terza, decine di migliaia di anime in pena, speranzosi e disperati costretti ad aspettare ogni anno una convocazione, assorbiti a settembre, a ottobre, a novembre e licenziati a giugno, un caos nel quale tanti insegnanti sono ingrigiti amaramente. E anche gli alunni hanno pagato caro per questa fabbrica infernale di illusioni e delusioni. È una delle cause principali del cattivo funzionamento della scuola: il nuovo insegnante arriva, pianta la sua tenda leggera e poi, finito l’anno, è costretto a smontarla e a sparire chissà dove. Certe classi hanno avuto cinque insegnanti di matematica in cinque anni, un disastro.
Insomma, il danno è stato fatto prima e ora il governo prova a risolvere il pasticcio, ma non ho convinto nessuno. Non ho convinto nemmeno l’alunna arrabbiata cronica che teme il taglio delle vacanze: «Mi ha detto mia madre che la scuola chiuderà solo per un mese, saremo costretti a studiare con l’afa, che vergogna!». Sui telefonini questa notizia minacciosa è girata, una catena di sant’Antonio che prevede i ragazzi chini sui banchi a luglio. È difficile spiegare che si tratta di una bufala. Le parole volano nell’aria del disappunto, il clima si avvelena. «Vogliono mandare gli studenti a lavorare gratis nelle fabbriche» mi ha informato il prof marxista-leninista. Ho scosso la testa timidamente: «È un tentativo di stabilire un ponte tra la scuola e il mondo del lavoro. Noi insegnanti nei tecnici e nei professionali sappiamo bene quanto sarebbe utile che gli studenti facessero esperienza nelle aziende, come in Germania, in Olanda».
Non c’è niente da fare: i professori italiani sono scottati da anni di riforme tutte fuoco e fiamme e poi cenere. Troppo spesso l’innovazione si è trasformata in un cumulo di carte inutili da riempire. C’è stato un incontro pomeridiano tra genitori e insegnanti su “Sinergie verticali per l’inclusione”. Se c’erano tre ideogrammi cinesi era la stessa cosa. Poi s’è intuito che bisognava discutere sulla dispersione scolastica, e anche queste parole potrebbero suonare mandarine a un cittadino normale. In definitiva si tratta di capire perché tanti alunni abbandonano la scuola. Ma detto così è troppo semplice, dobbiamo ingarbugliare, tradire la bella chiarezza della nostra lingua. Forse anche per questa subdola oscurità tanti insegnanti non si fidano più delle proposte del governo, prevedono fregature dietro a ogni carta ministeriale. Le conoscenze, le competenze, la lingua scellerata di ogni comunicazione dall’alto, le astratte programmazioni, tutto contribuisce a creare un tremendo senso di inadeguatezza.
In classe c’è una finestra che non si chiude e tanti ragazzini ai quali insegnare le materie e un po’ anche a vivere meglio. C’erano alcuni tablet, ma sono stati rubati, capita anche questo a Torre Maura, pure le macchinette del caffè e delle merende sono state scassinate. La vita nella scuola è così, tanti ragazzi che faticano da morire e che spesso scivolano verso l’analfabetismo e la depressione, tanti insegnanti volenterosi e avviliti, tante pene concrete, e per fortuna fiotti improvvisi di energia. La distanza tra la teoria e la pratica, tra le chiacchiere finto-pedagogiche e la lavagna traballante è immensa. La buona scuola dovrebbe ricucire, semplificare e rilanciare. «Verremo valutati e cacciati da presidi nazisti», dice un professore incline al lamento catastrofico come quasi tutti. Giravo da solo per i corridoi il 5 maggio, giorno di sciopero massiccio, e però mi ripetevo: per l’ultima volta voglio provare a essere ottimista, voglio illudermi che tutto andrà bene, che in questa scuola saremo più sapienti e più felici. Ma all’uscita ho incontrato un collega romanissimo che sorridendo beffardo mi ha detto: «Guarda che è anche colpa tua se la Buona Scuola va in porto: era meglio se chiamavi ‘sta riforma La Buona Sòla».
Pubblicato il 22 Maggio 2015