È passato un anno dalla direttiva Renzi che invitava le amministrazioni dello Stato a declassificare (se necessario) e versare in anticipo agli archivi di Stato la documentazione relativa alle stragi terroristiche tra il ‘69 e l’84. Dopo le delusioni iniziali di troppe buste semivuote, sono arrivate alcune importanti sorprese positive, nientemeno che dai militari. Sono stati versati all’Archivio Centrale dello Stato cospicui fondi documentali da parte dell’Aeronautica e dell’Arma, documentazione proveniente sia dagli uffici centrali che da quelli periferici. Parliamo di ben 325 buste da parte dell’aviazione, tutto materiale su Ustica, ovviamente, e 110 (per un totale di alcune migliaia di pagine, di cui circa 5000 su piazza Loggia) dai Carabinieri, sia in formato digitale che cartaceo (avere a disposizione quest’ultimo è importante, per i ricercatori, per poter meglio valutare le carte; il digitale, inoltre, offre meno garanzie di autenticità). È una novità importante, segnale concreto di un cambiamento culturale. Gli Stati Maggiori e tutto ciò che è “militare”, infatti, non sono tenuti a versare le carte all’Acs (hanno un loro archivio storico autonomo). Dunque c’è stata una deroga alla legge, la rinuncia a un privilegio, per andare nella direzione della “total disclosure” auspicata dalla direttiva.
Tra i tasti dolenti, si registra che il Ministero Affari Esteri (anch’esso titolare di un proprio archivio storico) finora ha operato in modo lacunoso e deludente; da più parti si è levata la richiesta di una maggiore proattività da parte delle ambasciate sui temi più brucianti: oltre a Ustica, le molte storie di terroristi latitanti e i legami di Gelli e P2 con Argentina e Uruguay. Latita ancor di più il ministero dell’Interno. Pochi versamenti (tra cui buste della Criminalpol con semplici informazioni sui feriti). Si attende, per esempio, un più ampio versamento delle carte dell’ex Ucigos, ora Direzione centrale polizia di prevenzione, che sul terrorismo ha investigato. Molto grave che l’Acs abbia ricevuto le carte del famigerato Ufficio Affari Riservati dell’Interno (quelle ritrovate in via Appia nel 1996, per intenderci) soltanto fino al 1965: lì ci sono sicuramente — lo sappiamo dalle perizie effettuate per conto della magistratura e da fonti giornalistiche — carte che riguardano la strage di piazza Fontana.
Il bilancio un anno dopo? All’Acs sono arrivate la bellezza di 497 buste. Sommando i versamenti della direttiva Prodi del 2008 fanno 641 (grazie a due governi di centrosinistra, va sottolineato: hanno ancora qualche significato, le vecchie categorie di Bobbio). Non mancano le “tensioni interpretative” circa l’ampiezza della declassifica da operare (l’Interno si attiene a criteri più restrittivi), ma sono comunque stati soprattutto il Dis e gli “uffici speciali” (costituiti con la riforma dei Servizi del 2007 presso le amministrazioni che producono e conservano materiale sensibile per la sicurezza) a darsi da fare (“Avevano la coda di paglia?”, scherza un’archivista di lungo corso).
La grande enfasi posta sulla declassifica, accompagnata da aspettative quasi sempre eccessive, ha paradossalmente adombrato l’importanza di un più celere e regolare versamento di carte non riservate. Tanto più che nel luglio 2014 sono stati apportati due piccoli ma preziosi emendamenti al Codice dei Beni culturali: termini di versamento anticipati da quaranta a trent’anni, e abolito l’infido comma che prevedeva la possibilità di impedire la consultazione di documenti versati anzitempo. “Pecettature” a parte (nomi, sigle o sezioni di testo temporaneamente coperti per motivi di sicurezza, si può vedere tutto. L’Archivio Centrale dello Stato merita un plauso: pur con un budget ridotto ai minimi storici, si è impegnato perché ogni versamento, anche cospicuo, fosse ordinato e inventariato celermente per la consultazione e ha messo online tutti gli inventari per agevolare i ricercatori (ma — per garantire il massimo rispetto del codice deontologico — i documenti, anche digitali, si consultano nella sala studio).
Due i punti davvero critici, che richiedono un intervento politico. 1) Occorre ampliare l’ambito della direttiva: limitarla, com’è stato fatto, solo ad alcuni fatti criminali, porta a paradossali smembramenti di fondi e fascicoli, e rischia di lasciar fuori materiale rilevante, solo perché non legato “nominalmente” a una certa strage. Meglio lavorare su estremi cronologici. 2) Servono criteri di sorveglianza sulla selezione delle carte: basterebbe la partecipazione al processo almeno di un archivista dello Stato (come nelle commissioni di scarto dei tribunali). Finora, infatti, i soggetti che hanno prodotto le carte, hanno fatto da sé le selezioni. Per esempio, le migliaia di pagine versate dai Servizi (solo in formato digitale) sono state selezionate da loro medesimi. Con alle spalle una storia come la nostra, chi garantisce i cittadini che tirino fuori tutto? Sappiamo già che ci saranno dei buchi (troppi gli episodi noti di distruzione, nascondimento o dispersione di documenti), ma commissioni “miste” potrebbero esorcizzare, in futuro, lo spettro di una scelta troppo discrezionale da parte dei soggetti produttori. Certo è arduo che passi questa linea di trasparenza estrema. E intanto, che si fa?
Questo mare di carte è comunque un grande passo avanti. Il compito del “controllo democratico” ora tocca davvero ai cittadini: storici, giornalisti, ricercatori, cittadini, parlamentari impegnati in commissioni d’inchiesta, magistrati o poliziotti in pensione, semplici interessati. Solo investendo tempo a studiare con pazienza queste carte, mettendole in relazione con gli atti giudiziari, si potranno formulare valutazioni definitivesui versamenti, valorizzarli, scovare elementi di conoscenza nuovi, oppure denunciare, a ragion veduta, eventuali manipolazioni, lacune significative, operazioni di “falsa trasparenza”. Servono tempo, pazienza, fatica. Oltre gli appelli, è tempo di mobilitare quell’intelligenza delle cose e degli avvenimenti di cui parlava Aldo Moro in uno dei suoi ultimi discorsi.
Pubblicato il 9 Maggio 2015