Non restano che i più giovani fra i sopravvissuti ai campi di sterminio. Coloro che al momento della cattura avevano 15 anni, la soglia dell’età della ragione, e oggi ne hanno quasi 90, come Marceline Loridan-Ivens. I deportati bambini venivano eliminati subito, inabili al lavoro com’erano. Perciò, fra altri quindici, vent’anni al massimo, non ci sarà più nessuno al mondo in grado di ricordare. Scomparirà anche l’ultimo superstite — una soglia che verrà attraversata dall’umanità in silenzio, forse non ce ne accorgeremo, eppure si tratta di un confine quanto mai pericoloso. Sarà come perdere il contatto con una navicella che s’inabissa sempre più nel buio del cosmo, fino a trovarsi fuori portata. Ma a bordo di quella navicella ci saremo noi tutti, orfani di un passato orribile che per decenni ci ha forse protetti da noi stessi .
Anche Marceline Loridan-Ivens teme l’oblio. Nelle interviste ribadisce che «bisogna testimoniare». Incessantemente. Dopo una vita come cineasta che l’ha portata a seguire ovunque nel mondo le nefandezze dell’uomo — Cina, Vietnam, Algeria — quasi che dopo lo sterminio non potesse staccare lo sguardo dall’Arancia meccanica della civiltà, Marceline torna al campo. Ci ritorna perché è là che vide per l’ultima volta suo padre. Lei fu destinata a Birkenau, lui ad Auschwitz, tre chilometri appena li separavano, ma «erano come migliaia».
Un giorno, tornando da una giornata in cui avevano spaccato sassi, si rincontrarono, padre e figlia. I commando rispettivi sfilarono uno accanto all’altro e loro si corsero incontro per abbracciarsi. Le guardie trattarono lei come una puttana e picchiarono lui. L’indomani, sfiorandosi di nuovo, non osarono avvicinarsi. Solo, un giorno Schloïme riuscì a far recapitare a Marceline una cipolla e un pomodoro. Un’altra volta, «un mot», un biglietto. Marceline ha dimenticato che cosa ci fosse scritto, estirpati com’erano i sentimenti dalle sue viscere già nel momento in cui lo lesse. Rammenta solo che cominciava con le parole «Ma chère petite fille» e terminava con la firma. Nient’altro. Al contrario di lei, il padre non sopravvisse. Morì a Gross-Rosen o forse a Dachau, durante gli spostamenti nevrotici da un campo all’altro, gli ultimi spasmi del nazismo ormai pressato dall’avanzata russa.
In tutti questi anni Marceline non aveva risposto al biglietto. Ha deciso di farlo oggi, ottantaseienne, per raccontare al padre la vita che dal giorno in cui il treno li inghiottì insieme ha, quasi suo malgrado, vissuto. Cento pagine appena, limpide e fatalmente necessarie, redatte con l’ausilio della scrittrice Judith Perrignon e che portano il titolo E tu non sei tornato . «Era un altro modo di invocarti. Io ero la tua cara figlioletta. Lo si è ancora a quindici anni. Lo si è a tutte le età. Io ho avuto così poco tempo per fare scorta di te». Con questo tono nudo e affezionato, che appartiene alla quindicenne e insieme alla donna matura, Marceline racconta tutto al genitore che l’è mancato, gli racconta del campo sì, ma soprattutto del dopo , di ciò che lui non ha visto: come Birkenau-Auschwitz non sia mai finito per lei, e mai potrà finire.
Riteniamo, forse, che il nostro immaginario riguardo ai campi di sterminio sia pressoché saturo. Abbiamo letto e visto molto; ricostruzioni più o meno meticolose sono impresse in noi a partire dal giorno in cui, ognuno a proprio modo, abbiamo fatto conoscenza con quell’abisso della storia, un abisso così in-credibile , che apprenderne l’esistenza costituisce un trauma di per sé. Come perdere d’un tratto una fiducia aprioristica nell’uomo, oppure in Dio. Eppure, la descrizione stringata che Marceline L.I. fa del campo è ancora nuova, ancora scioccante: i cumuli di vestiti, le ispezioni di Mengele, i tradimenti e i sotterfugi — dettagli che devono averle insidiato la mente ogni giorno e ogni notte, da allora.
Ciò che scuote maggiormente la coscienza del destinatario della lettera, tuttavia, riguarda la vita oltre il campo. È il resoconto di come Marceline, libera, viene infine reintegrata nella propria famiglia, in Francia. Lo zio Charles, che l’attende sulla banchina della stazione, l’ammonisce subito: «Ero ad Auschwitz. Non raccontarlo a nessuno, non capiscono niente». Ma non c’è il rischio di raccontare, perché nessuno fa domande. La madre di Marceline si accerta esclusivamente che la figlia non sia stata violentata, che sia ancora buona per prendere marito. Quanto al fratello minore Michel, Marceline ha l’impressione che avrebbe preferito veder tornare il padre piuttosto che lei. Morirà suicida. «Aveva la malattia dei campi senza esserci andato».
Lo sterminio non finisce ad Auschwitz. Lo sterminio si propaga nello spazio e nel tempo. «Mi sarebbe piaciuto darti delle buone notizie, dirti che, dopo essere caduti nell’orrore e aver atteso invano il tuo ritorno, ci siamo ripresi. Ma non posso. Sappi che la nostra famiglia non è sopravvissuta a quello che è successo». Non è sopravvissuta la famiglia e non è sopravvissuta l’umanità tutta. L’ultima parte del libro esprime lo sgomento di una donna — una donna che credeva di avere saggiato la malvagità dell’uomo in ogni suo raccapricciante anfratto — mentre guarda in televisione i grattacieli di New York sbriciolarsi al suolo. È lo sgomento di chi, dopo tutto ciò che è stato, vede le illusioni cadere «come pelli morte», l’antisemitismo riaccendersi ovunque nel mondo e la propria appartenenza rafforzarsi, come unica difesa. «Non so se l’orrore abbia risvegliato l’orrore, ma a partire da quel giorno, ho sentito quanto ci tenessi a essere ebrea. È come se fino a quel momento ci avessi girato intorno, ma in fin dei conti essere ebrea è quello che di più forte c’è dentro di me» .
È bene che mi fermi. Mentre scrivo, avverto quanto sia sconveniente versare parole sopra un libro tanto parsimonioso, che economizza su ogni frase, su ogni pensiero e soprattutto sul dolore, che nondimeno è soverchiante in certi passaggi.
Nei giorni successivi alla lettura di E tu non sei tornato, cercavo d’immaginare come debbano apparire certi frangenti, gravi oppure futili, agli occhi pieni di amarezza di Marceline Loridan-Ivens. Mi sembrava di riuscirci, almeno in parte. Per questo le sono riconoscente. Il suo libro è uno fra gli ultimi segnali diretti che riceveremo dai campi di sterminio degli ebrei. Mano a mano che i testimoni scompaiono, il peso della memoria grava sempre di più su chi rimane — ben presto sarà per loro insopportabile. E noi, perduti gli ormeggi, ce ne andremo piano piano alla deriva nella dimenticanza, forse nell’incredulità. Leggete questo libro .
Pubblicato il 1 Maggio 2015