Gentile direttore,
alla vigilia del settantesimo anniversario della Liberazione, il Corriere si chiede, e mi chiede, se si può ritenere che l’Italia sia pronta a celebrarlo con autentico spirito unitario, dopo tante polemiche divisive. A me pare di poter constatare oggettivamente come nel corso di questi anni — rispetto, ad esempio, a quando nel 2008 celebrai il 25 aprile a Genova — certe polemiche si siano stemperate. Si avverte assai meno, innanzitutto, quello sfidarsi e confrontarsi duramente tra esaltazioni acritiche della Resistenza e clamorose rivelazioni dei suoi lati e momenti oscuri, che per un certo tempo avevano tenuto il campo. Si è fatto largo un approccio più aperto e problematico alle complessità della lotta di Liberazione, si è compreso di non doverne occultare i limiti e le ombre, e di conseguenza sono anche scemate le rappresentazioni in negativo di quella straordinaria fase di riscatto nazionale come se si fosse trattato di un «mito» da sfatare. Hanno fatto breccia, io credo, nell’opinione pubblica il recupero e la valorizzazione di dimensioni a lungo gravemente trascurate del processo di mobilitazione delle energie del paese che si dispiegò per difendere l’onore e riconquistare la libertà e l’indipendenza dell’Italia: la dimensione cioè del contributo dei militari, sia delle forze armate coinvolte nella guerra fascista e poi schieratesi eroicamente (basti fare il nome di Cefalonia) contro l’ex alleato nazista, sia delle nuove forze armate ricostituitesi nell’Italia liberata (che ebbero a Mignano Montelungo il loro battesimo di fuoco). L’immagine della Resistenza si è così ricomposta nella pluralità delle sue componenti: quella partigiana, quella militare, quella popolare. E in questa accezione più vera e unitaria, essa diventa parte integrante di quel più generale recupero della nostra memoria storica e identità nazionale, che fu il segno e il risultato delle celebrazioni del Centocinquantenario dell’Unità d’Italia.
E non poco ha significato, anni fa, anche l’apporto di uno storico rigoroso e indipendente come Claudio Pavone nell’analizzare le molteplici valenze della lotta di Liberazione nell’Italia «tagliata in due»: anche quella della «guerra civile», senza contrapporla ad altre, innanzitutto a quella di decisivo profilo patriottico-nazionale, e piuttosto cogliendola nel suo intreccio con la valenza di classe e ideologica che pure concorse ad animare la Resistenza. Quella valutazione rigorosa dovuta a Claudio Pavone non alimentò ma forse piuttosto contribuì a ridurre l’impatto che in anni ancora a noi vicini ebbe un’altra polemica, pur obiettivamente, storicamente insostenibile, quella sulla «Resistenza tradita».
Sono in definitiva convinto che il Settantesimo della Resistenza possa essere sentito come proprio dagli italiani senza alcuna distinzione, e certamente non come punto di riferimento e patrimonio privilegiato di qualche singolo partito. E a ciò ha certamente contribuito l’accresciuta distanza nel tempo che ci separa da quella grande pagina della nostra vita collettiva, consentendo reazioni più distaccate rispetto, poniamo, a dieci anni fa o anche meno.
Se c’è qualcosa che ancora preoccupa è piuttosto il rischio di una disattenzione, se non distrazione, da parte di molti, di fronte a una ricorrenza pur così ricca di significati e di implicazioni. Ed è un peccato, perché celebrando oggi il 25 aprile possiamo trovare in quell’esperienza motivi forti di orgoglio e di fiducia come italiani, oltre che rendere memore riconoscente omaggio a quanti combatterono e a quanti in quei 19 mesi caddero per la libertà e l’indipendenza — e per la stessa riunificazione — del nostro paese.
Ancora una sottolineatura e un richiamo voglio fare sul tema della nostra riconquistata indipendenza, nel suo legame col tema più che mai vissuto e dibattuto dalla Costituzione repubblicana. Fra i 3 paesi dell’Asse totalitario, protagonisti aggressivi della Seconda Guerra Mondiale, l’Italia fu quello che trovò le forze per affrancarsi — dopo la caduta del fascismo — da un’infausta alleanza di guerra. E che prese così il suo posto — grazie al contributo delle sue nuove Forze Armate e della Resistenza — nello schieramento anti-nazista, come co-belligerante al fianco, in particolare, delle forze anglo-americane combattenti in Italia. Riconquistammo in questo modo la nostra indipendenza anche sul piano istituzionale e culturale, col diritto a darci in piena libertà e autonomia una Costituzione democratica, elaborata, e nel dicembre 1947 approvata, da un’Assemblea eletta dal popolo. Ben diversa fu la condizione umiliante in cui toccò al Giappone darsi la sua Carta sotto l’egida del Generale Mac Arthur. E anche la Germania occidentale poté adottare soltanto nel maggio 1949 la sua «Legge fondamentale» quale fu approvata però solo da un ristretto «Consiglio Parlamentare». Peraltro, si deve dirlo, la Carta tedesca si caratterizzò per soluzioni che tennero pienamente conto della tragica esperienza del crollo della Repubblica di Weimar, pure non ignorata, dai costituenti italiani. I quali però non seppero sancire le soluzioni da essi stessi pur lucidamente intuite più di due anni prima delle scelte tedesche, per evitare l’instabilità dei governi e le degenerazioni del parlamentarismo, per evitare cioè che la nostra Costituzione nascesse con quel punctus dolens , come lo definì ancora nel 2008 Leopoldo Elia. Ma questo è un altro discorso…
Pubblicato il 19 Aprile 2015