Anche noi abbiamo aziende «dirompenti», capaci di rivoluzionare un mercato grazie a un’idea originale. L’edizione italiana della Mit Technology Review, fondata da Alessandro Ovi e Romano Prodi, sta per pubblicare l’elenco delle 10 aziende disruptive italiane in grado per innovazione, salto tecnologico o nuovo modello di business, di spazzare via i concorrenti. La lista è frutto di un monitoraggio che ha coinvolto associazioni, università e specialisti e che ha prodotto questi nomi: Almawave, Bio-On, Brembo, Coelux, Finceramica, Greenrail, Holostem, Horus, Sun4People e Texa. Un mix nel quale troviamo aziende medio-grandi, spin off universitari, piccole start up e persino una Onlus siciliana. Quanto alle specializzazioni la fanno da padrone le biotecnologie e l’automotive. «La differenza tra le aziende dirompenti italiane e quelle americane sta però nella dimensione. Da noi si tratta per lo più di piccole imprese, le grandi sono un’eccezione» sottolinea Ovi. L’eccezione si chiama Brembo più ST Microelectronics: dopo l’introduzione delle vetture ibride ed elettriche hanno immaginato un nuovo tipo di freno che viene gestito da un sistema di controllo elettronico e dà insieme sicurezza e recupero energetico.
L’esperienza che funge da paradigma è quella della Holostem, lo spin off dell’Università di Modena e Reggio Emilia diventato partner della Chiesi di Parma, una big della farmaceutica. La Holostem è la prima azienda biotech dedicata a creare prodotti di terapie avanzate basati su colture di cellule staminali epiteliali ed è stata capace di commercializzare il primo farmaco a base di staminali autorizzato nel mondo occidentale. Commenta Ovi: «Dovrebbe accadere sempre così, il piccolo che incontra il grande e pone le premesse per crescere rapidamente sfruttando il potenziale dirompente dell’innovazione che ha messo a punto. Da noi però la mancanza di un fitto tessuto di grandi imprese si fa sentire e quell’incontro spesso non avviene». Nella lista della Mit Technology Review ci sono almeno altre quattro aziende che avrebbero bisogno di accoppiarsi. Sono la bolognese Bio-On estremamente avanzata nella produzione di plastica biodegradabile, la comasca Coelux che ha messo a punto una tecnologia innovativa capace di trasformare il modo di pensare la luce artificiale, lo spin off emiliano Finceramica che opera nel campo delle soluzioni biomediche per la rigenerazione dei tessuti connettivi e, infine, la genovese Horus che ha messo a punto un dispositivo innovativo in grado di riconoscere testi, oggetti, persone per supplire alla mancanza della vista di ipovedenti o ciechi.
«Nella maggioranza di questi casi servirebbero forze finanziarie ingenti per pensare di spaccare davvero il mercato e imporsi a livello globale» sottolinea Ovi. La possibilità di crescere velocemente può essere data da un partner industriale ma può essere anche frutto di una collaborazione duratura con un grande utilizzatore: è il caso della veneta Texa (diagnostica auto) alla quale potrebbero guardare i grandi player delle quattroruote ma anche della Greenrail che produce traversine ricavate dalla plastica, dotate di generatori di elettricità piezoelettrici. Quale sia la formula il grande passo è necessario, «altrimenti la disruption resta potenziale e non nascono quelle aziende globali e innovative di cui abbiamo bisogno».
Pubblicato il 7 Aprile 2015