«I l 2 ottobre ci fu la cattura. Era il primo giorno di scuola, un lunedì. Una volta le scuole ricominciavano in ottobre. Dalle persiane chiuse vedevo alcuni bambini con le cartelle». Rav Giuseppe Laras ha compiuto ieri ottant’anni, è un’autorità tra i rabbini europei, da allora ha dedicato buona parte della sua vita allo studio. La filosofia medievale e rinascimentale, il pensiero di Maimonide, i venticinque anni da rabbino capo di Milano e la cattedra alla Statale, fino a quella summa plurimillenaria del pensiero ebraico, dalla Bibbia a Hannah Arendt, appena completata con il secondo volume di «Ricordati dei giorni del mondo» (EDB). Ricordati.
Laras aveva nove anni quel giorno del 1944 in cui non poteva andare a scuola per le leggi razziali e i fascisti bussarono alla porta della nonna, a Torino, dove si era rifugiato con la madre. «Papà era partigiano in montagna e si salvò. Noi eravamo fuggiti a luglio dai rastrellamenti della Val Grande, mia sorella coi nonni paterni vicino a Chivasso, la mamma e io dalla nonna. La nonna diceva che non aveva nessuna paura a rimanere a Torino perché non aveva mai fatto male a nessuno. Non aveva capito, come tanti, che era un tempo di lupi, di malvagi. Era stata la portinaia a fare la spia, pagavano cinquemila lire a ebreo». La voce si arrochisce, di rado il rabbino Laras parla di quel giorno, «quando ci ripenso rivivo quell’atmosfera, è come se fossi sempre stato li. Mi si chiude la gola, mi viene da piangere».
Eppure da lì bisogna partire. Gli amici che da tempo fanno finta di non conoscerti, la delazione, la madre che con ventimila lire e trenta pacchetti di sigarette convince i due fascisti a lasciare andare il bambino, il percorso lungo via Madama Cristina verso l’hotel Nazionale dove ha sede la Gestapo, l’incrocio con Corso Vittorio Emanuele, l’aguzzino che sembra non volergli lasciare la mano; «guardai mia mamma, mi liberai con uno strattone, e corsi via: fu l’ultima volta che le vidi, lei e la nonna».
Bisogna partire da quello che Laras ha scritto ne «Il comandamento della memoria» (a cura di Francesca Nodari, Massetti Rodella editori), la necessità di «ricordare per ricostruire»: «L’obiettivo fondamentale non dovrà essere unicamente quello di consegnare ai posteri questa memoria, bensì di trasmettere un atteggiamento di netto rifiuto della violenza e dell’intolleranza talché esso possa diventare parte integrante del patrimonio etico-culturale delle donne e degli uomini di domani».
Gli anni da rabbino capo e l’amicizia con un altro torinese adottato da Milano, il cardinale Carlo Maria Martini, hanno segnato forse il punto più avanzato del dialogo tra ebrei e cristiani. Due uomini di fede e di studio, un po’ timidi, accomunati dall’ironia delle persone molto colte. Rav Laras sorride nel ricordare uno dei suoi maestri, Leon Ashkenazi: «Ci faceva giocare grandi partite di calcio e poi si studiava. L’ultima volta andai a trovarlo a Gerusalemme, era molto malato, mi richiamò quand’ero ormai sulla porta: “Ti devo dire una cosa, ma non offenderti”, mormorò. “Sei diventato un grande sapiente, però come centravanti sei sempre stato una schiappa”».
Con Martini, invece, si saluta rono il 3 maggio 2012, all’Aloisianum di Gallarate, entrambi sapevano che era un addio. «Muoveva appena le labbra e c’era quel sacerdote meraviglioso, don Damiano Modena, che capiva e ripeteva. Parlammo un po’ di filosofia. Quando ho visto che era stanco, mi sono alzato. Ci siamo abbracciati e mi è venuto d’istinto di posargli la mano sulla testa e benedirlo secondo la formula tradizionale. A sua volta lui mi ha messo la mano sul capo e ha mormorato una benedizione». Pochi mesi più tardi, quando Martini morì, Laras fece venire da Israele un sacchetto di terra e lo mise nella tomba del cardinale, «Avrebbe voluto essere sepolto a Gerusalemme, la malattia lo aveva impedito, così mi è venuto spontaneo di fare come si usa tra gli ebrei della diaspora. Nella vita le cose più belle vengono così, senza troppa riflessione».
Laras sa quanto sia «accidentato e difficile» il dialogo. «Dopo duemila anni di persecuzioni e contrapposizioni non è stato facile riprendere come niente fosse». Esiste anche un dialogo con l’Islam «ma è ancora più difficile ed episodico: quando si chiede ai musulmani che vivono tra noi di prender le distanze dalle violenze, c’è difficoltà, imbarazzo, sempre più silenzio che parola». Anche l’età di Maimonide, nella Spagna del XII secolo, «viene indicata come un’epoca di grande apertura e dialogo, una stagione che ci aiuta a sperare nel domani, ma non è durata granché». Bisogna andare avanti, nonostante tutto. Il dialogo non è materia da illusi, richiede il coraggio di guardare in faccia la realtà. «Qualche anno fa sono andato a vedere il lager dove uccisero la nonna e la mamma. Per tanto tempo non mi era riuscito. Mia figlia mi ha detto: papà, ti accompagno io. Lì ho scoperto che la mamma è morta il 29 dicembre del ‘44. Di Ravensbrück non è rimasto quasi niente. Lo hanno smantellato. Accanto c’era questo laghetto, carino, con le barche. Un contrasto che faceva male. Ma sono contento di esserci andato».
Pubblicato il 7 Aprile 2015