Quali sono le fonti della crescita economica? Per crescere ci vogliono braccia, macchine e cervelli. Le braccia sono l’occupazione, il lavoro; le macchine sono il capitale: macchinari, case, capannoni, ponti, strade…; i cervelli (terzo e importante elemento) sono la produttività: quella “polverina magica” di cui abbiamo parlato in passato (Il Sole Junior, 30 giugno e 7 luglio 2013) che combina lavoro e capitale in modi sempre più produttivi, con il progresso tecnico, l’organizzazione del lavoro, la qualità delle istituzioni…
Abbiamo dimenticato un altro fattore di produzione: le risorse, cioè terra, mari, minerali…. Ma oggi vogliamo concentrarci sulle… donne. Cosa c’entrano le donne con la crescita? C’entrano, eccome. Perché, quando si parla di braccia e di cervelli, questi fattori della produzione possono essere declinati al maschile e al femminile. Il capitale umano è forse il capitale più importante di tutti e per far crescere l’economia bisogna che questo capitale sia (come si diceva del rancio dei soldati) “ottimo e abbondante”. Il capitale umano (braccia e cervelli) crea il capitale fisico (macchine e costruzioni) ed elabora la “polverina magica” che fa lievitare l’economia.
Il problema è che di questo capitale umano la metà – quella femminile – è scarsamente utilizzata. Anche là dove la popolazione non cresce, o addirittura diminuisce (come è il caso della Germania o del Giappone) quel che è importante, per la crescita economica, non è il numero di abitanti, ma il numero di lavoratori. Andiamo a vedere la popolazione in età di lavoro (da 15 a 64 anni) e calcoliamo la quota di occupati su quel totale, divisa fra uomini e donne. Un po’ in tutti i Paesi, la quota di occupazione femminile è più bassa di quella maschile.
Se questa quota crescesse più rapidamente (in effetti è andata crescendo, anche se rimane più bassa) ne beneficerebbe la crescita, economica e sociale. Il problema è importante anche perché con l’invecchiamento in corso della popolazione (la natalità è bassa e la gente vive più a lungo) coloro che lavorano dovranno mantenere stuoli crescenti di anziani. I rimedi, se non si vuole tassare ancora di più chi lavora, sono tre: allungare l’età di pensionamento, ridurre i trattamenti di pensione, o aumentare il numero di coloro che lavorano. Certamente, dei tre rimedi quello di gran lunga preferibile è l’aumento dell’occupazione. E il modo più diretto di farlo è quello di ricorrere a un particolare “giacimento”: il giacimento del lavoro femminile, attirando nella forza lavoro le donne che ne sono tenute al margine.
Il grafico mostra come in Italia il tasso di occupazione femminile sia particolarmente basso. Il numero di donne occupate è andato aumentando (vedi il confronto fra gli andamenti dell’occupazione maschile e femminile in Italia e in America) ma molta strada resta ancora da fare. Per l’Italia, insomma, c’è una buona notizia e una cattiva notizia: l’occupazione femminile aumenta ma il numero di donne occupate è troppo basso.
Perché l’occupazione femminile aumenta? L’aumento dipende essenzialmente dalla composizione dell’attività economica. In tutti i Paesi, e anche in Italia, diminuisce la quota di attività che è legata alla produzione di “cose” (manifatturiero, agricoltura e costruzioni) e aumenta la quota dei servizi (pubblici e privati). La produzione di cose era tradizionalmente dominata dal lavoro maschile, spesso pesante, mentre la produzione di servizi è più accessibile alle donne. Inoltre, la scolarizzazione femminile è andata procedendo più rapidamente di quella maschile, e questo ha reso le donne più “impiegabili” di prima.
Perché il tasso di occupazione femminile in Italia è così basso? La risposta si divide in due. Il problema è generale: il tasso di occupazione complessivo (maschi e femmine) è basso. In percentuale della popolazione in età di lavoro, nel 2013, gli occupati maschi erano in Italia il 65,8%, contro una media di 73,2% per i Paesi Ocse. Un classamento basso, che dipende da difetti di fondo del sistema economico italiano, che non riesce a produrre posti di lavoro: molte imprese nascono ma non riescono a crescere, per ostacoli alla concorrenza, cattive infrastrutture, vincoli burocratici, pesantezza del fisco, scarso rispetto dei valori di mercato… . Ma la differenza fra Italia e media Ocse nel tasso di occupazione, che è di circa 7 punti per gli uomini, diventa di 10 punti per le donne. Abbiamo bisogno quindi di altre ragioni per spiegare la minorità del lavoro femminile.
La risposta è allora legata non alla domanda di lavoro (delle imprese) ma all’offerta di lavoro (delle lavoratrici). Qui le ragioni sono culturali. La figura tradizionale della donna legata alla casa è dura a morire e il lavoro femminile viene guardato, magari inconsciamente, con sospetto. Là dove l’emancipazione della donna è meno pronunciata (come vedete dal grafico, Spagna, Italia e Grecia sono agli ultimi tre posti nel tasso di occupazione femminile) la presenza nella forza-lavoro è più bassa.
I rimedi? Certo, si potrebbe dire: date tempo al tempo. L’occupazione femminile sta aumentando per conto suo, per le ragioni sopra dette. Ma molto si può – e si deve – fare per accelerare questo processo. Le ragioni ‘culturali’ accennate prima stanno svanendo rapidamente, specie per le generazioni più giovani, ma permangono ostacoli a una maggiore partecipazione femminile: primo, il problema di conciliare maternità e lavoro. Nei Paesi ove più diffuso è il ricorso ad asili nido, l’occupazione femminile è più alta. E naturalmente, la cura dei figli e della casa può essere più equamente distribuita fra uomini e donne, con norme che prevedano congedi di paternità e non solo di maternità.
Il problema è che di questo capitale umano la metà – quella femminile – è scarsamente utilizzata. Anche là dove la popolazione non cresce, o addirittura diminuisce (come è il caso della Germania o del Giappone) quel che è importante, per la crescita economica, non è il numero di abitanti, ma il numero di lavoratori. Andiamo a vedere la popolazione in età di lavoro (da 15 a 64 anni) e calcoliamo la quota di occupati su quel totale, divisa fra uomini e donne. Un po’ in tutti i Paesi, la quota di occupazione femminile è più bassa di quella maschile.
Se questa quota crescesse più rapidamente (in effetti è andata crescendo, anche se rimane più bassa) ne beneficerebbe la crescita, economica e sociale. Il problema è importante anche perché con l’invecchiamento in corso della popolazione (la natalità è bassa e la gente vive più a lungo) coloro che lavorano dovranno mantenere stuoli crescenti di anziani. I rimedi, se non si vuole tassare ancora di più chi lavora, sono tre: allungare l’età di pensionamento, ridurre i trattamenti di pensione, o aumentare il numero di coloro che lavorano. Certamente, dei tre rimedi quello di gran lunga preferibile è l’aumento dell’occupazione. E il modo più diretto di farlo è quello di ricorrere a un particolare “giacimento”: il giacimento del lavoro femminile, attirando nella forza lavoro le donne che ne sono tenute al margine.
Il grafico mostra come in Italia il tasso di occupazione femminile sia particolarmente basso. Il numero di donne occupate è andato aumentando (vedi il confronto fra gli andamenti dell’occupazione maschile e femminile in Italia e in America) ma molta strada resta ancora da fare. Per l’Italia, insomma, c’è una buona notizia e una cattiva notizia: l’occupazione femminile aumenta ma il numero di donne occupate è troppo basso.
Perché l’occupazione femminile aumenta? L’aumento dipende essenzialmente dalla composizione dell’attività economica. In tutti i Paesi, e anche in Italia, diminuisce la quota di attività che è legata alla produzione di “cose” (manifatturiero, agricoltura e costruzioni) e aumenta la quota dei servizi (pubblici e privati). La produzione di cose era tradizionalmente dominata dal lavoro maschile, spesso pesante, mentre la produzione di servizi è più accessibile alle donne. Inoltre, la scolarizzazione femminile è andata procedendo più rapidamente di quella maschile, e questo ha reso le donne più “impiegabili” di prima.
Perché il tasso di occupazione femminile in Italia è così basso? La risposta si divide in due. Il problema è generale: il tasso di occupazione complessivo (maschi e femmine) è basso. In percentuale della popolazione in età di lavoro, nel 2013, gli occupati maschi erano in Italia il 65,8%, contro una media di 73,2% per i Paesi Ocse. Un classamento basso, che dipende da difetti di fondo del sistema economico italiano, che non riesce a produrre posti di lavoro: molte imprese nascono ma non riescono a crescere, per ostacoli alla concorrenza, cattive infrastrutture, vincoli burocratici, pesantezza del fisco, scarso rispetto dei valori di mercato… . Ma la differenza fra Italia e media Ocse nel tasso di occupazione, che è di circa 7 punti per gli uomini, diventa di 10 punti per le donne. Abbiamo bisogno quindi di altre ragioni per spiegare la minorità del lavoro femminile.
La risposta è allora legata non alla domanda di lavoro (delle imprese) ma all’offerta di lavoro (delle lavoratrici). Qui le ragioni sono culturali. La figura tradizionale della donna legata alla casa è dura a morire e il lavoro femminile viene guardato, magari inconsciamente, con sospetto. Là dove l’emancipazione della donna è meno pronunciata (come vedete dal grafico, Spagna, Italia e Grecia sono agli ultimi tre posti nel tasso di occupazione femminile) la presenza nella forza-lavoro è più bassa.
I rimedi? Certo, si potrebbe dire: date tempo al tempo. L’occupazione femminile sta aumentando per conto suo, per le ragioni sopra dette. Ma molto si può – e si deve – fare per accelerare questo processo. Le ragioni ‘culturali’ accennate prima stanno svanendo rapidamente, specie per le generazioni più giovani, ma permangono ostacoli a una maggiore partecipazione femminile: primo, il problema di conciliare maternità e lavoro. Nei Paesi ove più diffuso è il ricorso ad asili nido, l’occupazione femminile è più alta. E naturalmente, la cura dei figli e della casa può essere più equamente distribuita fra uomini e donne, con norme che prevedano congedi di paternità e non solo di maternità.