L’art. 9 della Costituzione disegna uno strano e originale “trittico” di valori (tutti fondamentali e riguardati come “tipizzanti” del volto costituzionale dello Stato-apparato e dello Stato-collettività), rispetto ai quali i compiti della Repubblica vengono ad essere scanditi secondo direttrici apparentemente non sintoniche fra loro. C’è la «cultura», che deve essere sviluppata; la «ricerca scientifica e tecnica» che deve essere promossa; il «paesaggio ed il patrimonio storico e artistico» che devono infine essere tutelati.
Sembrerebbe, quindi, che, mentre la “cultura” viene vista dalla Costituzione come un quid mai compiuto, ma sempre in divenire e da accrescere, la ricerca non abbia una sua dimensione diacronica, quantificabile secondo un più o un meno, ma debba semplicemente essere assecondata: quasi una funzione maieutica dello Stato, che ne deve accompagnare l’incedere, lasciando a chi si occupa di ricerca stabilire l’an, il quid ed il quomodo. Paesaggio e patrimonio storico e artistico sono invece visti nella loro prospettiva statica: vanno solo tutelati, quasi a farne un “museo” (all’aperto o al chiuso non importa).
Eppure, cultura, ricerca e patrimonio storico e artistico non appaiono elementi scollegati all’interno del “trittico” normativo di cui si è detto; né può dirsi che i compiti della Repubblica tracciati per ciascuno di essi siano frutto di una rapsodica rassegna, priva di un tratto unificante. Cultura e ricerca sono spesso (direi anzi sempre, sul piano storico) valori (e non solo strumenti) fra loro “interfacciabili”, non potendosi l’una “accrescere” – come vuole la Costituzione – senza la seconda, che per svolgere la sua funzione non deve essere “indirizzata” (come di regola accade negli assetti totalitari), ma semplicemente “promossa”. Lo stesso è a dirsi per il patrimonio paesaggistico, storico e artistico: è seriamente pensabile che un simile “valore” possa essere efficacemente “tutelato” senza cultura e ricerca?
Il “trittico” e i differenti compiti assegnati allo Stato sembrano dunque ricomporsi. Mentre, sul piano soggettivo (quello dei rapporti etico sociali della Parte II della Costituzione), il “faro” è offerto dall’art. 33 che, nel sancire la libertà dell’arte e della scienza, non si limita ad assegnare valore di intangibilità ad un semplice diritto per chiunque, ma finisce per “qualificare” contenutisticamente tanto l’arte che la scienza come materie “in sé” libere, quindi non “limitabili” da parte dello Stato. E poiché la scienza si compone e si compenetra con la ricerca, anche quest’ultima non potrà che essere attratta nella sfera precettiva dell’art. 33 Cost.
Da qui già alcuni primi corollari. Non mi sembra, anzitutto, che la posizione della Costituzione sia “neutra” sul tema della scienza, cultura e ricerca scientifica e tecnica: la propensione, più che esplicita, è verso uno Stato “attivo” nel “coltivare” la “cultura”, nella piena consapevolezza che i valori del “sapere” non possono disancorarsi dal valore “dell’essere” (e, soprattutto, del come essere). Attraverso la evocazione di questo “attivismo” promozionale per tutto ciò che è “cultura” (pur con tutto il relativismo semantico che accompagna questa espressione), la Costituzione – a me pare – non è neppure “eticamente” neutra (anche se, va precisato, si tratta di un’etica profondamente laica). Arte, storia, scienza sono senz’altro “cultura” (in chiave costituzionale) e qualsiasi giudizio “morale” che rompesse la compenetrazione tra i vari termini del sintagma finirebbe per assegnare una inconcepibile attribuzione negativa (“non” arte, “non” storia, “non” scienza, “non” cultura) in dipendenza di valutazioni “soggettive” totalmente eccentriche rispetto al disegno della Costituzione.
Ma è altrettanto evidente che la “cultura” che lo Stato ha il compito di “sviluppare” non è avulsa dal contesto di valori in cui il costituente l’ha iscritta; con la chiara conseguenza che un simile “sviluppo” debba rappresentare una “progressione” verso il conseguimento di quei valori, dando risalto alla “storia” che ha accompagnato un simile “progresso” verso il bene comune. La “moralità” costituzionale va, dunque, a mio avviso ricostruita come necessaria sintonia tra la evoluzione culturale e la somma dei valori presenti in un paese, in un dato contesto storico; in modo tale da evitare che una determinata “cultura” possa offendere e pregiudicare i “diritti” di una cultura “diversa” che si conformi ai valori della legalità (globalizzazione e conseguenti confronti-scontri fra “culture” sono sotto gli occhi di tutti).
Altra conseguenza che scaturisce da quanto si è detto, è rappresentata dal fatto che la ricerca – che lo Stato deve, come si è detto “promuovere” – è anch’essa da conformare agli indicati parametri di “moralità” costituzionale, dal momento che l’assenza di “confini” normativamente predefiniti, impone un intervento pubblico solo a tutela di un interesse pubblico, e quindi “moralmente” in linea con l’intera tavola dei valori tanto costituzionali che derivanti da fonti internazionali o sovranazionali. Ma, ciò che più conta, la ricerca da promuovere, saldandosi a filo doppio con il fine di perseguire “un valore aggiunto” evocativo di un sostanziale “progresso collettivo”, non può disancorarsi (ancora una volta, secondo una “etica dei valori”, quali in particolare il principio solidaristico) dalla esigenza che la “ricerca” non possa essere racchiusa in un confine di autoreferenzialità “dogmatica”, senza perseguire obiettivi che presentino una qualche rilevanza “esterna”.
La ricerca meramente “autoreferenziale” può essere arte, scienza, tutelate nella loro libertà, o semmai, “cultura” da sviluppare. Ma per essa – in sé e per sé considerata – appare difficile immaginare una “causa” costituzionale per ritenere che lo Stato abbia uno specifico obbligo di “promozione”: proprio perché fa per definizione difetto qualsiasi significativo riverbero sul piano degli interessi collettivi. Libertà, dunque, di ricerca: ma promozione solo di quella “costituzionalmente” significativa.
Un terzo ed ultimo corollario mi pare possa trarsi da quanto si è detto. A prescindere dalla vexata quaestio di quali siano i tratti distintivi tra scienza, tecnica e tecnologia, la Costituzione sembra ritenere del tutto equivalenti gli attributi della ricerca, ancora una volta denotando una opzione “generalista” che eviti qualsiasi elemento lessicale dal quale poter dedurre una sorta di limitazione “qualitativa” della ricerca che lo Stato è chiamato a promuovere. Spira, come è evidente, una qualche aria di propensione verso una proiezione “tecnologica” della ricerca, nella prospettiva di un incremento del benessere “materiale” dei consociati: ma, a mio avviso, l’apparenza inganna. Cultura e ricerca – come abbiamo già detto – sono i due volti di uno stesso “valore”, sicché apparirebbe davvero illogica una previsione che si limitasse a promuovere la ricerca scientifica o tecnica senza preoccuparsi di “scienze” in sé prive di riflessi “applicativi” sul piano materiale; l’intera gamma delle scienze umane resterebbe implausibimente negletta, quando, al contrario, lo sviluppo della cultura di un paese non può evidentemente farne a meno.
Sembrerebbe, quindi, che, mentre la “cultura” viene vista dalla Costituzione come un quid mai compiuto, ma sempre in divenire e da accrescere, la ricerca non abbia una sua dimensione diacronica, quantificabile secondo un più o un meno, ma debba semplicemente essere assecondata: quasi una funzione maieutica dello Stato, che ne deve accompagnare l’incedere, lasciando a chi si occupa di ricerca stabilire l’an, il quid ed il quomodo. Paesaggio e patrimonio storico e artistico sono invece visti nella loro prospettiva statica: vanno solo tutelati, quasi a farne un “museo” (all’aperto o al chiuso non importa).
Eppure, cultura, ricerca e patrimonio storico e artistico non appaiono elementi scollegati all’interno del “trittico” normativo di cui si è detto; né può dirsi che i compiti della Repubblica tracciati per ciascuno di essi siano frutto di una rapsodica rassegna, priva di un tratto unificante. Cultura e ricerca sono spesso (direi anzi sempre, sul piano storico) valori (e non solo strumenti) fra loro “interfacciabili”, non potendosi l’una “accrescere” – come vuole la Costituzione – senza la seconda, che per svolgere la sua funzione non deve essere “indirizzata” (come di regola accade negli assetti totalitari), ma semplicemente “promossa”. Lo stesso è a dirsi per il patrimonio paesaggistico, storico e artistico: è seriamente pensabile che un simile “valore” possa essere efficacemente “tutelato” senza cultura e ricerca?
Il “trittico” e i differenti compiti assegnati allo Stato sembrano dunque ricomporsi. Mentre, sul piano soggettivo (quello dei rapporti etico sociali della Parte II della Costituzione), il “faro” è offerto dall’art. 33 che, nel sancire la libertà dell’arte e della scienza, non si limita ad assegnare valore di intangibilità ad un semplice diritto per chiunque, ma finisce per “qualificare” contenutisticamente tanto l’arte che la scienza come materie “in sé” libere, quindi non “limitabili” da parte dello Stato. E poiché la scienza si compone e si compenetra con la ricerca, anche quest’ultima non potrà che essere attratta nella sfera precettiva dell’art. 33 Cost.
Da qui già alcuni primi corollari. Non mi sembra, anzitutto, che la posizione della Costituzione sia “neutra” sul tema della scienza, cultura e ricerca scientifica e tecnica: la propensione, più che esplicita, è verso uno Stato “attivo” nel “coltivare” la “cultura”, nella piena consapevolezza che i valori del “sapere” non possono disancorarsi dal valore “dell’essere” (e, soprattutto, del come essere). Attraverso la evocazione di questo “attivismo” promozionale per tutto ciò che è “cultura” (pur con tutto il relativismo semantico che accompagna questa espressione), la Costituzione – a me pare – non è neppure “eticamente” neutra (anche se, va precisato, si tratta di un’etica profondamente laica). Arte, storia, scienza sono senz’altro “cultura” (in chiave costituzionale) e qualsiasi giudizio “morale” che rompesse la compenetrazione tra i vari termini del sintagma finirebbe per assegnare una inconcepibile attribuzione negativa (“non” arte, “non” storia, “non” scienza, “non” cultura) in dipendenza di valutazioni “soggettive” totalmente eccentriche rispetto al disegno della Costituzione.
Ma è altrettanto evidente che la “cultura” che lo Stato ha il compito di “sviluppare” non è avulsa dal contesto di valori in cui il costituente l’ha iscritta; con la chiara conseguenza che un simile “sviluppo” debba rappresentare una “progressione” verso il conseguimento di quei valori, dando risalto alla “storia” che ha accompagnato un simile “progresso” verso il bene comune. La “moralità” costituzionale va, dunque, a mio avviso ricostruita come necessaria sintonia tra la evoluzione culturale e la somma dei valori presenti in un paese, in un dato contesto storico; in modo tale da evitare che una determinata “cultura” possa offendere e pregiudicare i “diritti” di una cultura “diversa” che si conformi ai valori della legalità (globalizzazione e conseguenti confronti-scontri fra “culture” sono sotto gli occhi di tutti).
Altra conseguenza che scaturisce da quanto si è detto, è rappresentata dal fatto che la ricerca – che lo Stato deve, come si è detto “promuovere” – è anch’essa da conformare agli indicati parametri di “moralità” costituzionale, dal momento che l’assenza di “confini” normativamente predefiniti, impone un intervento pubblico solo a tutela di un interesse pubblico, e quindi “moralmente” in linea con l’intera tavola dei valori tanto costituzionali che derivanti da fonti internazionali o sovranazionali. Ma, ciò che più conta, la ricerca da promuovere, saldandosi a filo doppio con il fine di perseguire “un valore aggiunto” evocativo di un sostanziale “progresso collettivo”, non può disancorarsi (ancora una volta, secondo una “etica dei valori”, quali in particolare il principio solidaristico) dalla esigenza che la “ricerca” non possa essere racchiusa in un confine di autoreferenzialità “dogmatica”, senza perseguire obiettivi che presentino una qualche rilevanza “esterna”.
La ricerca meramente “autoreferenziale” può essere arte, scienza, tutelate nella loro libertà, o semmai, “cultura” da sviluppare. Ma per essa – in sé e per sé considerata – appare difficile immaginare una “causa” costituzionale per ritenere che lo Stato abbia uno specifico obbligo di “promozione”: proprio perché fa per definizione difetto qualsiasi significativo riverbero sul piano degli interessi collettivi. Libertà, dunque, di ricerca: ma promozione solo di quella “costituzionalmente” significativa.
Un terzo ed ultimo corollario mi pare possa trarsi da quanto si è detto. A prescindere dalla vexata quaestio di quali siano i tratti distintivi tra scienza, tecnica e tecnologia, la Costituzione sembra ritenere del tutto equivalenti gli attributi della ricerca, ancora una volta denotando una opzione “generalista” che eviti qualsiasi elemento lessicale dal quale poter dedurre una sorta di limitazione “qualitativa” della ricerca che lo Stato è chiamato a promuovere. Spira, come è evidente, una qualche aria di propensione verso una proiezione “tecnologica” della ricerca, nella prospettiva di un incremento del benessere “materiale” dei consociati: ma, a mio avviso, l’apparenza inganna. Cultura e ricerca – come abbiamo già detto – sono i due volti di uno stesso “valore”, sicché apparirebbe davvero illogica una previsione che si limitasse a promuovere la ricerca scientifica o tecnica senza preoccuparsi di “scienze” in sé prive di riflessi “applicativi” sul piano materiale; l’intera gamma delle scienze umane resterebbe implausibimente negletta, quando, al contrario, lo sviluppo della cultura di un paese non può evidentemente farne a meno.