La Tunizia è nota per i suoi gelsomini, le sue terrazze affacciate sul mare, la sua ospitalità e la volontà di essere l’elemento femminile nel Maghreb — se, come dice il proverbio, l’Algeria è un leone e il Marocco un uomo. Di fatto, per chi viene dall’Algeria, ove la vita è piuttosto dura, soprattutto dopo la terribile guerra condotta per strappare la sua indipendenza, la Tunisia appare come un porto di pace, dolcezza e vita serena. Per questo molti turisti hanno apprezzano questo Paese, fino all’attentato del 2002 contro la Sinagoga di Djerba, città nota per le sue attrattive turistiche e la sua buona cucina. In quel periodo il Paese era sotto il pugno di ferro di Ben Ali e della sua onnipresente polizia. La quale però non impedì il massacro di 14 tedeschi, 2 francesi e 5 tunisini periti in quell’attacco, che già allora voleva essere un avvertimento, destinato a tener lontani i turisti.
Il Paese rimase sotto shock, incapace di comprendere il perché di quest’azione tesa a rovinarlo: senza turismo la Tunisia si sarebbe trovata in una situazione economica molto grave.
C’è stata poi la scintilla che ha fatto divampare la cosiddetta “primavera araba”. Sembra che la Tunisia fosse il solo Paese a trarre vantaggio da quella rivoluzione, altrove degenerata in barbarie, o in ordine militare. L’attentato di mercoledì 18 è un palese attacco contro i progressi che la Tunisia sta compiendo sulla via della democrazia e di un certo grado di laicità, o quanto meno del rifiuto di un islamismo volto al ritorno ai tempi del profeta Maometto, con evidente anacronismo.
La Tunisia è un piccolo Paese affacciato sul Mediterraneo, aperto all’Europa; un Paese di métissage ben riusciti, ove la condizione delle donne è più protetta che in qualsiasi altro Paese arabo e musulmano.
È anche il Paese che vanta il maggior poeta della letteratura araba del XX° secolo, Abu Kachen Chebbi (1909 — 1934) autore di una poesia celebre, divenuta l’inno di vari movimenti rivoluzionari: «Ai tiranni del mondo». Ecco come descrive la figura del despota-presidente o assassino: «O tiranno oppressore /Amico della notte / nemico della vita / ti sei fatto beffe di un popolo debole / e la tua mano è macchiata di sangue. / Tu guasti la magia dell’universo — e nei suoi luoghi più alti — semini spine di sventura …» Molte spine di sventura e selvaggia ferocia sono state seminate in Tunisia in questi ultimi anni; soprattutto da quando il Paese è riuscito a trovare un accordo per una Costituzione eccezionale, unica nel mondo arabo e musulmano, dato che garantisce “libertà di coscienza” e parità di diritti tra uomini e donne.
Già prima dell’attacco al Museo Bardo, la Tunisia si sapeva minacciata, consapevole che gruppi finanziati e armati da nemici della libertà e della democrazia volevano punirla. Vi sono stati attacchi contro mostre di pittura, omicidi di personalità politiche democratiche come Chokri Belaïd (il 5 febbraio 2013) e il deputato Mohamen Brahmi (il 25 luglio dello stesso anno). In precedenza c’era stato l’attacco dei salafisti contro l’Ambasciata degli Stati Uniti (quattro morti). Si scoprì allora che la polizia era disorganizzata e mal preparata a questo genere di guerriglia. Se ne è avuta conferma ora al Museo Bardo. Tutti si chiedono come mai due individui armati di kalashnikov abbiano potuto penetrare in un museo e sparare sulla folla dei visitatori, tanto più che quel museo è adiacente alla sede dell’Assemblea nazionale. Certo, in materia di sicurezza, come ha detto un ministro, il Paese «è nel caos». La polizia avrebbe bisogno di essere gestita meglio, anche perché gli assassini che si richiamano all’autoproclamato “Califfo” non si fermeranno qui. Il progetto di questo “Califfo” è di regnare ovunque, e destabilizzare tutti i Paesi musulmani che non si piegheranno al suo dominio. Il capo di uno “Stato islamico” illegittimo, che nessuna istanza legale ha mai riconosciuto, persegue il suo sogno e il suo progetto; e gli eserciti dei molti Paesi che lo combattono non ottengono alcun risultato.
Va detto che la situazione caotica della Libia gli è particolarmente favorevole. È in questa terra — non uno Stato ma un’accozzaglia di tribù in guerra tra loro — che i massacratori del Bardo sono stati addestrati. Si sono dati il nome di “Falangi Okba Ibn Nafaa”, un generale che fu alla testa delle armate musulmane inviate dal califfo omayyade di Damasco, Mu’awiya, per diffondere l’islam subito dopo la morte di Maometto. In questo tipo di riferimenti si ravvisa la logica dell’Is, volta a far tornare l’islam di oggi ai suoi albori, quando il Profeta dovette fare la guerra per difendersi contro le armate di politeisti e non credenti.
Di fatto, le forze di Al Baghdadi dispongono di un sostegno e di mezzi poco noti alle grandi potenze che asseriscono di voler combattere il terrorismo internazionale. Non sarebbe il caso di incominciare a indagare sull’origine di quei fondi, armamenti, filiere di reclutamento in ogni parte del mondo? L’Occidente non è meno minacciato dei Paesi musulmani che respingono i discorsi e gli atti di quella barbarie.
Oggi sappiamo che cellule terroristiche si sono insediate nel Sinai, e che altre, a Gaza, si sono avvicinate a Hamas. Sappiamo di alcuni elementi, ex ufficiali di Saddam e di Gheddafi, che hanno aderito alle forze di Al Baghdadi e combattono per un nuovo ordine mirante non solo ad annientare i Paesi arabi moderati, impegnati in uno sviluppo verso la modalità come quelli del Maghreb, ma ad abbattere la stessa civiltà araba e islamica, con la distruzione delle sue opere d’arte, patrimonio universale dell’umanità.
Tutto il mondo civile è oggi coinvolto in questa tragedia. Contro quel nemico invisibile e impunito la mobilitazione dovrebbe andare molto al di là di quanto i Paesi impegnati nella lotta all’Is stanno facendo in questi giorni.
( traduzione di Elisabetta Horvat)