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“Contro il racket lavoro paziente non chiacchiere”, di Lionello Mancini – Il Sole 24 Ore 16.03.15

Da alcune settimane, si rincorrono interrogativi sullo stato di salute dell’antimafia in Sicilia, ma non solo.
Come distinguere l’impegno per la legalità dagli sbandieramenti di convenienza e dalle parole ispirate, ma inutili? Come riconoscere – in sostanza – le iniziative che modificano la realtà, dagli slogan che “bucano” i media, ma non spostano gli equilibri consolidati del malaffare?
Un primo criterio per tentare una risposta, è quello che individua i fatti distinguendoli dalle chiacchiere.
Ad esempio, per le imprese che hanno ottenuto il rating di legalità, le chiacchiere “stanno a zero”. Il sito dell’Antitrust ne indica 391, il che significa che già oggi è possibile contare migliaia tra imprenditori, manager e dipendenti che praticano (non predicano) un’idea di azienda moderna e strategica, che hanno scelto come operare nel mercato e si sono assunti l’impegno volontario di conservare le tre stellette oppure di migliorare la valutazione indipendente della loro solidità, biennio dopo biennio.
Altri fatti di cui pochissimo (giustamente) si parla, sono quelli ascrivibili al lavoro quotidiano delle associazioni antiracket. Forse non tutti hanno un’idea esatta di cosa significhi portare un commerciante o un imprenditore a denunciare un’estorsione.
È un percorso che inizia avvicinando con cautela una persona sfinita, sfiduciata, che non dorme la notte per paura di non farcela o che succeda qualcosa alla sua famiglia. Questa persona va convinta che ha di fronte non ragazzini volenterosi ma interlocutori fidati, a loro volta ascoltati dalle istituzioni pronte ad agire senza esporre inutilmente (magari in forma di eroe) chi denuncia.
La fiducia non si compra: il lavoro sotterraneo può durare mesi e non è detto che produca il coraggio per il passo finale, che si concretizza in un’aula di tribunale piena di persone che affiancano l’imprenditore che dovrà puntare il dito e far condannare l’estorsore.
Il tutto – attenzione – non nella comoda Milano (dove il silenzio è la regola) ma nelle zone più controllate dalle cosche in Calabria, Sicilia, Campania. Se di questi fatti i media non parlano fino agli arresti, significa che il meccanismo ha funzionato: se invece finiscono sui giornali, vuol dire che c’è scappato il morto.
Ci sono poi i fatti dell’Associazione costruttori, che ha applicato per la prima volta il nuovo Codice etico, dichiarando decaduto il presidente di una sede provinciale del Sud, già sospeso perché rinviato a giudizio per bancarotta. Una decisione netta dei probiviri nazionali dell’Ance, che ha trasportato dalle buone intenzioni scritte sulla carta alla realtà un confine reputazionale severo, non mancando di suscitare reazioni molto forti (anche di tipo legale) da parte dell’interessato e dei suoi sodali.
Si potrebbe continuare con altri fatti, tutti ben distinguibili dalle chiacchiere.
Ma c’è un ulteriore discrimine utile a rispondere alla domanda iniziale: quello che invita a distinguere le pagliuzze dalle travi di evangelica memoria (Luca 6,41).
Anche nel fronte schierato per la legalità esistono persone, enti, associazioni, categorie professionali, onestamente impegnati a riflettere sui propri risultati e i propri limiti; poi ci sono quelli che si limitano a lamenti e critiche – anche non fondate, a volte feroci – su tutto ciò che non derivi dal proprio impegno.
Un atteggiamento manicheo, furbesco, purtroppo diffuso. Lo stesso che auto-giustificava pratiche a dir poco opache con vibranti richiami allo “Stato assente” perché “facesse la sua parte”. Ci sono voluti decenni per riportare ciascuno al suo, anche se è ovvio che nei momenti di crisi si riaffaccino vecchie abitudini non del tutto debellate: così i giornalisti infilzano imprenditori e politici, questi se la prendono con giornalisti e magistrati, i quali ultimi scuotendo il capo ribadiscono che la categoria “società civile” è un’invenzione (loro esclusi, ovviamente).
Fatti, umiltà, tenacia, spirito autocritico: la risposta è dentro questo perimetro.