Pubblichiamo i brani più significativi del discorso che il presidente Usa ha pronunciato sabato a Selma (Alabama) a 50 anni dalla marcia per i diritti degli afroamericani organizzata da Martin Luther King nel 1965
È un raro onore, nella vita, poter seguire l’esempio dei nostri eroi. E John Lewis è uno dei miei eroi. Tuttavia, immagino che quando il giovane John Lewis si svegliò quella mattina di cinquant’anni fa e si avviò verso la Brown Chapel, di certo non pensava all’eroismo. C’erano ragazzi con zaini e sacchi a pelo accorsi da ogni dove. Un dottore spiegava gli effetti dei gas lacrimogeni, mentre i manifestanti scrivevano su un foglietto come contattare i parenti in caso di necessità. L’aria era carica di tensioni, dubbi e timori. I partecipanti cercavano conforto nell’ultimo verso dell’ultimo inno intonato assieme: «Qualunque sarà la prova, Dio ti proteggerà;/ Poggia il capo, se sei stanco, sul Suo petto, Dio ti proteggerà».
Ci sono luoghi in cui è stato sancito il destino della nostra nazione. Selma è uno di questi.
Un pomeriggio di cinquant’anni fa, gran parte della storia travagliata di questa nazione – la vergogna della schiavitù e lo strazio della guerra civile; il giogo della segregazione e la tirannide delle leggi razziali; la morte di quattro bambine a Birmingham e il sogno di un predicatore battista – si è raccolta in questo luogo.
Dall’Alabama all’Ucraina
Gli americani che hanno attraversato questo ponte non avevano un fisico possente, eppure hanno saputo infondere coraggio a milioni di persone. Non erano stati eletti a nessuna carica di governo, eppure hanno saputo guidare una nazione. Si sono messi in marcia come cittadini americani che avevano sopportato centinaia d’anni di brutali violenze e innumerevoli umiliazioni quotidiane, ma non reclamavano privilegi, bensì di essere trattati con giustizia ed uguaglianza, come era stato promesso loro quasi un secolo prima (…). Lo spirito americano che ha spinto giovani, uomini e donne, ad afferrare la fiaccola e attraversare questo ponte è lo stesso spirito che ha spinto i patrioti a scegliere la rivoluzione per sottrarsi alla tirannia. È lo stesso istinto che ha attirato gli immigrati, dall’altra sponda degli oceani e del Rio Grande; lo stesso istinto che ha spinto le donne a lottare per il voto e i lavoratori a organizzarsi per combattere le ingiustizie; lo stesso istinto che ci ha portati a piantare la bandiera a Iwo Jima e sulla Luna.
È l’idea condivisa da generazioni di cittadini che vedono l’America come una realtà in continua evoluzione, per i quali amare il proprio Paese significa non solo osannarlo o scansare verità scomode, ma saper trovare addirittura il coraggio di causare disordini, la volontà di alzare la voce per difendere ciò che è giusto, ribaltare lo status quo.
È questo ciò che ci rende unici e cementa la nostra fama di Paese delle opportunità. I ragazzi dietro la Cortina di Ferro hanno assistito agli eventi di Selma e un giorno anche loro hanno rovesciato un muro. I giovani di Soweto hanno sentito parlare Bob Kennedy di quel piccolo raggio di speranza e alla fine sono riusciti a cancellare la vergogna dell’apartheid. Dalle strade di Tunisi a piazza Maidan in Ucraina, la nostra generazione di giovani potrà trarre ispirazione da questo luogo, dove coloro che erano senza potere hanno saputo cambiare la più grande potenza mondiale e costringere i suoi governanti ad allargare gli orizzonti della libertà (…).
Una conquista gloriosa, avrebbe detto Martin Luther King. Quale immenso debito di riconoscenza ci lega a loro. Ma la domanda è d’obbligo: come esprimere la nostra riconoscenza?
Rendiamo un cattivo servizio alla causa della giustizia insinuando che pregiudizio e discriminazione siano immutabili, o che le divisioni razziali siano connaturate in America. Se pensate che nulla sia cambiato nell’ultimo mezzo secolo, chiedete a chiunque sia vissuto a Selma, o a Chicago o a Los Angeles negli anni Cinquanta. Chiedete alle donne dirigenti d’impresa, che allora sarebbero state relegate a mansioni di segretarie, se nulla è cambiato. Chiedete al vostro amico gay, se è più facile vivere la propria sessualità oggi in America rispetto a trent’anni fa. Negare questo progresso – che è il nostro progresso – equivale a negare la nostra capacità d’azione, la nostra responsabilità nel fare ciò che è in nostro potere di fare per migliorare l’America.
La musica della libertà
Certo, un errore più comune è suggerire che il razzismo non esiste più(…). Basta tenere aperti occhi, orecchie e cuori per capire che la storia razziale di questo Paese getta ancora la sua lunga ombra su di noi. Sappiamo che la marcia non è ancora finita, che la partita non è ancora vinta (…). Con i nostri sforzi congiunti, possiamo tutelare le fondamenta della nostra democrazia, in nome della quale tante persone attraversarono questo ponte, e questo si chiama il diritto di voto. Oggi, nel 2015, cinquant’anni dopo Selma, esistono leggi in questo paese che ostacolano il diritto di voto dei cittadini, anzi, nuove leggi vengono proposte in questo senso (…).
Siamo nati dal cambiamento. Abbiamo infranto le antiche aristocrazie, riconoscendo la nostra nobiltà non nel sangue, ma nei diritti inalienabili concessi dal Creatore. Abbiamo stabilito quali sono i nostri diritti e doveri tramite un sistema di governo autonomo, del popolo, attraverso il popolo e per il popolo. Per questo siamo pronti a misurarci e a discutere con passione e convinzione, perché sappiamo che i nostri sforzi contano. Sappiamo che l’America è quella che noi costruiamo giorno dopo giorno (…).
Siamo noi gli immigrati che arrivarono da clandestini sulle navi, le folle accalcate impazienti di respirare la libertà, i superstiti dell’Olocausto, i dissidenti sovietici, gli orfani sudanesi. Siamo noi i migranti pieni di speranza che attraversano il Rio Grande per dare ai loro figli una vita migliore. Così è nato il nostro Paese. Siamo noi gli schiavi che hanno costruito la Casa Bianca e arricchito l’economia del sud. Siamo i braccianti e i cowboy che hanno spalancato il West, e un’infinità di operai che hanno costruito le ferrovie, innalzato i grattacieli e combattuto per i diritti dei lavoratori.
Siamo noi i soldati che hanno fatto la guerra per liberare un continente (…). Siamo i vigili del fuoco accorsi alle Torri Gemelle l’11 settembre, siamo i volontari andati a combattere in Iraq e in Afghanistan. Siamo noi gli omosessuali che hanno versato il loro sangue nelle strade di San Francisco e di New York, proprio come il sangue versato su questo ponte. Siamo noi gli inventori del gospel, del jazz e del blues, del bluegrass e del country, dell’hip-hop e del rock’n’roll; è questa la nostra musica, con tutta la malinconica tristezza e la gioia scatenata della libertà (…).
La nostra marcia
È questa l’America. Non foto di repertorio o storia edulcorata, né tiepidi tentativi di definire alcuni di noi come più americani degli altri. Rispettiamo il passato, ma non lo rimpiangiamo. Non abbiamo timore del futuro, anzi, lo anticipiamo. L’America non è qualcosa di fragile: siamo grandi e, nelle parole di Whitman, sappiamo accogliere le moltitudini. Siamo chiassosi, variegati e pieni di energia, sempre giovani. Ecco perché qualcuno come John Lewis, all’età di 25 anni, si mise alla testa di una marcia storica.
Perché Selma ci dimostra che l’America non è il progetto di questo o di quello. Perché la parola più potente della nostra democrazia è «noi». We The People . We Shall Overcome . Yes We Can . Questo spirito appartiene a tutti.
Cinquant’anni dopo quel Bloody Sunday, la nostra marcia non è ancora finita: ma il traguardo è vicino. Duecentotrentanove anni dopo la nascita della nostra nazione, la nostra unione non è ancora stata perfezionata. Ma il traguardo è vicino. Il nostro compito è reso più facile, perché qualcuno ci ha aiutato a superare il primo miglio. Quando pensiamo che la strada sia troppo difficile, ricordiamo questi primi viaggiatori per trarre forza dal loro esempio, ripetendo le parole del profeta Isaia: «Quelli che sperano nel Signore acquistano nuove forze, si alzano a volo come aquile, corrono e non si stancano, camminano e non si affaticano».
Onoriamo coloro che hanno camminato, e che ci hanno permesso di correre. Oggi tocca a noi correre, affinchè i nostri figli possano spiccare il volo. E non ci stancheremo, perché crediamo nella grandezza di Dio e crediamo nella sacra promessa di questo Paese.
Che Dio benedica quei combattenti per la giustizia che ci hanno lasciato, che Dio benedica gli Stati Uniti d’America.
(traduzione di Rita Baldassarre)