In tutto il pianeta oggi si ricorda Selma. Selma. Il nome stesso evoca immagini di persone diseredate, tuttavia coraggiose, che marciarono valorosamente lungo il ponte Edmund Pettus affrontando poliziotti ostili, gas lacrimogeni e cani feroci. A loro, ai neri, si unirono molte altre persone che non condividevano lo stesso colore della pelle, ma i valori di giustizia e uguaglianza. Attivisti dei diritti civili, leader, giovani e anziani marciarono insieme, decisi a ottenere per i neri d’America il diritto al voto a lungo atteso. Era il sette marzo 1965, culmine della storica Campagna per il diritto al voto del 1965. Quel giorno sarebbe passato alla storia come Bloody Sunday: Domenica di sangue.
Cinquant’anni più tardi, ricordiamo la sofferenza e i sacrifici di coloro che quel giorno si incamminarono da Selma verso Montgomery. Rendiamo onore a coloro che diedero la loro vita sfidando con coraggio l’oppressione razziale durante la Campagna. Il 18 febbraio Jimmy Lee Jackson, nipote di uno dei più cari compagni di liceo di mia madre, fu ucciso dalla polizia a Marion, in Alabama, mentre tentava di proteggere sua madre dalla violenza delle forze dell’ordine durante una manifestazione organizzata nei pressi del carcere in cui era detenuto il reverendo James Orange, uno degli organizzatori della Southern Christian Leadership Conference. Jackson morì otto giorni più tardi. In seguito, durante un attacco di matrice razzista, due sostenitori bianchi del Movimento per il diritto al voto, il reverendo James Reeb e Viola Liuzzo, furono assassinati per essersi uniti alla lotta. I nomi di questi martiri saranno custoditi per sempre negli annali del Movimento americano per i diritti civili e il loro eroico sacrificio non verrà mai dimenticato. Così, ricordiamo. E nel ricordare e rendere onore, dobbiamo anche essere consapevoli del fatto che la lotta continua. Come affermò tanto incisivamente mia madre, Coretta Scott King, «La lotta è un processo senza fine. La libertà non è mai definitivamente conquistata: ogni generazione deve guadagnarsela e ottenerla». Adesso, nel mezzo della lotta, ci spetta lo straordinario compito di valutare a che punto eravamo il sette marzo del 1965 e adesso.
A che punto siamo adesso? «La lotta è un processo senza fine», è vero, ma perché l’umanità è ancora alle prese con molti degli stessi problemi di cinquant’anni fa? Cosa animava gli eroi della Bloody Sunday che noi dobbiamo coltivare oggi a maggior ragione?
Nei cinquant’anni trascorsi dalla Bloody Sunday ci siamo ripetutamente scontrati con gli stessi problemi perché ancora non abbiamo adottato una filosofia condivisa, la stessa alla quale aderirono gli organizzatori della marcia: la nonviolenza. Questa filosofia, che ha permeato il pensiero, i preparativi e l’implementazione di molte fasi del moderno Movimento per i diritti civili, è da molti attribuita ad alcuni dei movimenti e delle iniziative dei nostri giorni. Ma stiamo davvero testimoniando e abbracciando la filosofia della nonviolenza, la stessa che animò la Bloody Sunday?
La filosofia nonviolenta di mio padre non si limita a pianificare una risposta organizzata a eventi tragici, violenti e razzisti. Va oltre il gesto di un attivista che rinuncia alle armi e alla lotta. Come affermava mia madre, la nonviolenza è «una disciplina spirituale che richiede molta forza, crescita ed espiazione dell’individuo perché uno possa superare quasi ogni ostacolo per il bene di tutti senza preoccuparsi della propria incolumità ».
Abbiamo fatto passi avanti, fisicamente e cronologicamente, ma abbiamo lasciato indietro questa disciplina spirituale. La filosofia nonviolenta che animò la Campagna per il diritto al voto e la Bloody Sunday è inestimabile e fondamentale se vogliamo smettere di sentirci come dei pompieri che accorrono da un’emergenza all’altra. La nonviolenza è uno stile di vita e una strategia perpetua che ci permetterà di porci sull’offensiva anziché mantenerci continuamente sulla difensiva. Saremo in grado di portare il pallone sino a metà campo grazie a decisioni condivise e gioco di squadra invece di preoccuparci delle mosse dei rivali.
La nonviolenza ci fornirà gli strumenti per portare generazioni di individui al tavolo delle trattative e unire le nostre conoscenze, talenti e entusiasmo. Come mio padre scrisse nel suo libro Dove stiamo andando: verso il caos o la comunità? , riusciremo a organizzare «la nostra forza sino a renderla un potere convincente», a essere consapevoli del fatto che dobbiamo dare la precedenza al potere sui programmi? Se così non fosse, i programmi si rivelerebbero impotenti.
È vero, «la lotta è un processo senza fine», ma non dobbiamo vagare senza meta quando abbiamo l’esempio fornitoci dai coraggiosi e nonviolenti fanti della Domenica di sangue. Essi compresero l’obiettivo, s’impegnarono per una causa comune e si attennero con tenacia e passione alla filosofia, un’ideologia galvanizzante, che era alla base del Movimento.
La nostra battaglia continua e, mentre ricordiamo Selma e la Bloody Sunday, andiamo avanti nella filosofia della Nonviolenza. Credo fermamente che lo dobbiamo a coloro che quel sette marzo del 1965 marciarono verso la violenza e la furia razzista. La loro determinazione e resilienza ci impone di elevare l’umanità con i principi che innanzitutto trasformano noi stessi. Sono questi gli echi che mi giungono da Selma.
( Copyright The Huffington Post. Traduzione di Marzia Porta)