La scolarizzazione femminile ha rappresentato la vera rivoluzione pacifica del Novecento, un secolo che – specie nella seconda parte, ha visto non solo crescere la presenza delle donne nell’educazione, anche come insegnanti, ma anche superare quella maschile. Tre dati per tutti, collegati agli obiettivi di Europa 2020: la dispersione scolastica tra 18 e 24 anni vede le ragazze coinvolte per il 12% e i ragazzi al 16% (obiettivo Ue: 10%); la frequenza delle scuole superiori registra una percentuale di ragazze superiore rispetto ai loro coetanei (addirittura dell’11%, in alcuni Paesi, come in Irlanda ma anche a Malta e in Romania); nelle università gli studenti di vent’anni sono per il 42% femmine e il 30% maschi, e le ragazze rappresentano inoltre il 60% dei laureati.
Ma sappiamo che permangono, sia pure in misura diversa, precoci discriminazioni dirette e indirette e aree di segregazione negli studi universitari (discipline scientifico-matematiche), nella formazione professionale e nell’alta istruzione tecnica (le ragazze sono meno presenti nelle competenze legate al TIC, all’energia e all’ambiente). È ancora troppo basso il numero delle giovani donne che si orientano verso la ricerca e le nuove tecnologie, mentre, la grande femminilizzazione del corpo docente (che prevale nelle scuole e si riduce nelle università) non sembra avere avuto l’impatto atteso: la riduzione degli stereotipi, il consolidamento di una maggiore autostima delle ragazze e il radicamento della cultura delle pari opportunità fra i ragazzi.
Se questo è vero in Europa, nell’anno europeo dedicato allo sviluppo e a pochi giorni dall’apertura della sessione Onu della Commissione Donne a vent’anni da Pechino, dobbiamo registrare che in molti Paesi in via di sviluppo la relazione fra accesso all’educazione delle donne, empowerment e partecipazione attiva è molto più evidente e che quindi l’esclusione o la riduzione delle possibilità di formazione diventa una priorità assoluta da affrontare e che deve vedere anche l’Europa più attiva sia nei partenariati e nella cooperazione allo sviluppo sia rimettendo l’educazione e la formazione più fortemente al centro della sua politica di crescita, intelligente, inclusiva e sostenibile.
I dati Unesco sull’istruzione delle ragazze, d’altro canto, sottolineano la relazione positiva con la salute, la riduzione della mortalità e povertà infantile, la tutela dell’ambiente, la crescita economica e la difesa dei diritti e dalla violenza e ci spingono ad agire almeno in due direzioni: nell’ambito dei modelli e degli strumenti educativi fin dalla prima infanzia, rafforzando da una parte la consapevolezza delle identità e delle attitudini personali e superando discriminazioni e stereotipi, e dall’altra, nei curricula scolastici, quelle competenze non formali (lavoro di gruppo, responsabilità, atteggiamento critico, creatività) che fanno crescere l’autostima e l’empowerment, ma anche la parità fra ragazze e ragazzi e l’attitudine alla partecipazione sociale; in ambito sociale e lavorativo, il gap tra le aspettative di ragazze con alti livelli di istruzione e il loro effettivo inserimento e i percorsi di carriera e le differenze di salario possono essere ridotti attraverso una maggiore applicazione dell’approccio della dual education, che consente di acquisire conoscenza non solo del mercato del lavoro ma anche delle proprie reali attitudini e capacità.
Accanto a questo il ruolo di nuove politiche di welfare che consentano la conciliazione è strategico. Ma c’è anche un livello culturale e simbolico. L’apporto dell’istruzione e dell’occupazione femminile ha un effetto moltiplicatore sia sulle prestazioni scolastiche dei figli, sia sull’incremento del Pil, e quindi delle risorse per un nuovo welfare. Ricerche europee su presenza femminile, scienza e tecnologie hanno testimoniato come la sotto-rappresentazione di donne costi alle imprese in termini di performance e profitti (i team di lavoro misti risultano essere più produttivi ), e che le imprese che investono di più nelle donne sono quelle che hanno maggior successo grazie alla loro capacità di produrre innovazione.
In generale, più fonti attestano che quelle competenze che ancora chiamiamo non formali o informali, insieme al talento e alla capacità di innovazione, ma anche di sintesi fra la cultura umanistica e quella scientifica sono oggi strategici per il nuovo mercato del lavoro. E sono patrimonio soprattutto delle donne. In questo consiste, dopo la rivoluzione del Novecento, consiste la sfida per il secolo che stiamo vivendo.
*Presidente commissione Cultura e Istruzione del Parlamento Europeo