«Nessun Paese al mondo ha raggiunto la parità di genere».
Colpisce, alla vigilia dell’8 marzo, questa frase di Phumzile Mlambo-Ngcuka, direttore esecutivo di «UN Women», l’agenzia Onu per l’uguaglianza di genere. Le ragioni sono naturalmente diverse: dall’Africa, dove il 70% del raccolto dipende dalle donne che pure possiedono solo il 2% della terra, agli Stati Uniti, dove Patricia Arquette ha dato voce agli Oscar alla battaglia per la parità di salario. Riconoscerlo non vuol dire negare gli enormi passi avanti fatti negli ultimi vent’anni: molte nazioni sono riuscite aridurre il gender gap nell’istruzione (una sfida che negli ultimi anni ha trovato una nuova icona in Malala); tante più donne sopravvivono alle complicazioni durante il parto nei Paesi in via di sviluppo; nuove istituzioni e nuove leggi sono state create contro le discriminazioni; e questi sono solo alcuni esempi. Ma l’Onu osserva pure che i progressi sono stati «lenti e volubili» e per questo rilancia oggi gli obiettivi individuati nel 1995 da 189 Paesi alla Conferenza mondiale sulle donne di Pechino.
La piattaforma di Pechino indicò 12 «aree di crisi» da affrontare (povertà, istruzione, salute, violenza, conflitti armati, economia, potere, meccanismi istituzionali, media, diritti umani, ambiente, bambine): una roadmap per la parità in tutte le dimensioni della vita. Ora l’appello ai leader mondiali è: impegnatevi per farcela prima del 2030. Uno dei consigli è dicreare ministeri, commissioni e budget specifici per far sì che le buone politiche vengano applicate nei fatti.
«Altrimenti una bambina che nasce oggi dovrà aspettare 80 anni prima di poter vedere un mondo che offra pari opportunità».