L’elenco inedito dei deportati del primo convoglio per Auschwitz e le analisi dello Zyklon B, il veleno usato nelle camere a gas
Settantasei su novantacinque significa l’ottanta per cento: un elenco dattiloscritto di settantasei nomi, ciascuno accompagnato da una lettera dell’alfabeto a indicarne il destino. Era il 3 maggio 1971 quando Primo Levi consegnò quel foglio – completo di conteggi e di legenda esplicativa – al pubblico ministero Dietrich Hölzner del tribunale di Berlino Ovest, giunto a Torino per raccogliere la sua testimonianza. Si chiudeva la fase istruttoria del processo contro l’ex colonnello delle SS Friedrich Bosshammer, collaboratore diretto di Eichmann, accusato della deportazione di 3.500 ebrei italiani. Tra i luoghi di partenza di quei deportati c’era il campo di raccolta di Fossoli-Carpi: il primo convoglio prese la via di Auschwitz il 22 febbraio 1944, viaggiando cinque giorni e quattro notti. I dodici vagoni contenevano 650 persone, tra cui l’allora ventiquattrenne Levi; il più giovane, Leo Mariani, aveva due mesi, la più anziana, Anna Jona, ottantotto anni.
La sera del 26 febbraio, all’arrivo, meno di un quinto dei deportati furono selezionati per il lavoro forzato in Lager: novantacinque uomini più ventinove donne. Tutti gli altri furono condotti alle camere a gas.
A un quarto di secolo dai fatti, Primo Levi riuscì dunque a ricostruire l’identità e la sorte di settantasei uomini sui novantacinque che insieme con lui entrarono vivi in Auschwitz. «La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace», avrebbe scritto nel suo ultimo libro I sommersi e i salvati. E quell’ottanta per cento fu realmente un risultato straordinario, una vittoria in una prolungata battaglia contro l’oblio, a favore dell’esattezza dei fatti. Eppure, sarebbe sbagliato considerare un semplice exploit di mnemotecnica il documento inedito riprodotto in questa pagina.
Le cronache apparse nel maggio ’71 sui quotidiani torinesi riportano che Hölzner ricevette in dono da Levi una copia della versione tedesca di Se questo è un uomo, e che la allegò agli atti del processo Bosshammer. Fu un gesto giuridicamente pertinente; quel libro non era un semplice referto: era un’indagine sulla struttura e l’antropologia del Lager, radicata nel terreno dei fatti: al neutro orrore dei numeri davano senso i nomi delle persone, i loro comportamenti, i loro destini. Proprio come in Se questo è un uomo, sul foglio consegnato a Hölzner Levi restituiva il nome a 76 persone già declassate a numeri di matricola.
Il libro pubblicato da Einaudi che oggi raccoglie l’elenco del 1971 s’intitola Così fu Auschwitz. Gli autori in copertina sono due: a Levi si affianca Leonardo De Benedetti, il medico torinese nato nel 1898 che fu con lui durante il ritorno narrato nella Tregua: l’amico o fratello maggiore, l’«uomo buono», la persona dotata di «coraggio silenzioso» con cui Levi scrisse a Katowice, già nella primavera 1945, un rapporto sulle condizioni igienico-sanitarie di Auschwitz che rappresenta la prima testimonianza di carattere scientifico sui Lager resa da ex deportati italiani. Nei decenni successivi, Leonardo e Primo non avrebbero smesso di testimoniare: e più d’una volta, come in occasione del processo Bosshammer, l’uno accanto all’altro.
Così fu Auschwitz è una raccolta di scritti, in gran parte inediti o dispersi, che da oggi si colloca accanto a I sommersi e i salvati: non come un semplice retroscena di quel libro definitivo, ma come un’opera nuova, anzi innovativa e autonoma. Come un libro che porta alla piena evidenza una lezione di metodo: il metodo di Primo Levi, rispetto al quale persino parole come «testimonianza» e «memoria» finiscono per apparire insufficienti: o meglio, monche, perché non rendono giustizia ai modi in cui Levi seppe indagare per oltre quarant’anni i fatti di Auschwitz.
Un esempio concreto: soltanto oggi apprendiamo, grazie a due tra i documenti più remoti (risalgono al 1946-47), che Levi volle materialmente analizzare lo Zyklon B, il gas dello sterminio: «ricerche mie personali» afferma nella prima testimonianza, per poi specificare nella seconda, senza possibilità di equivoco, che «il veleno usato nelle camere a gas di Auschwitz, e da me esaminato», era una sostanza composta «da acido prussico, addizionato di sostanze irritanti e lacrimogene allo scopo di rendere più sensibile la presenza in caso di fughe o rotture degli imballaggi in cui veniva contenuta». Non dovette essere troppo difficile, nell’immediato dopoguerra e per un chimico reduce da Auschwitz, procurarsi una confezione di quella «preparazione chimica in forma di polvere grossolana, di colore grigio-azzurro, contenuta in scatole di latta». Più difficile per noi misurare la forza d’animo necessaria a eseguire l’analisi e a non farne parola, eccetto che in referti destinati alle aule dei tribunali, che solo oggi riemergono.
L’episodio dello Zyklon B rivela che il Levi analista di Auschwitz non fu solo un testimone, ma assunse il ruolo del ricercatore. La differenza è essenziale. Levi ha ricordato più volte che, subito dopo il ritorno a Torino, avvenuto il 19 ottobre 1945, cominciò a raccontare la propria storia spinto da una febbre di necessità: la imponeva a chiunque, anche durante un breve tragitto in tram. Tutto questo è vero ed è all’origine di Se questo è un uomo, ma è solo metà del vero. Dopo la liberazione, Levi non si limitò a consegnare una vicenda a chi fosse disposto ad ascoltarla: impiegò sistematicamente il suo tempo a raccogliere notizie sui compagni di deportazione, dedicandosi a salvare nomi e destini.
Così si spiega, molto prima di quel foglio datato 3 maggio 1971 per il processo Bosshammer, il contenuto della prima testimonianza che rese dopo il ritorno. Ritrovata qualche mese fa nell’Archivio Ebraico Terracini di Torino, la «Relazione del dott. Primo Levi n. di matricola 174517 reduce da Monowitz-Buna» consiste in un elenco di trenta persone coinvolte nella micidiale marcia di evacuazione da Auschwitz decisa dai tedeschi il 17 gennaio 1945.
Quando Levi lo scrisse, tra metà novembre e metà dicembre del ’45, ancora non si conosceva l’esito disastroso della marcia, cui sopravvisse appena un quinto dei prigionieri. Ma la «Relazione» appare sbalorditiva perché è il frutto di un lavoro di ricerca dei fatti, e di deduzione logica a partire dai fatti stessi, che si appoggia a sua volta sull’esame critico di informazioni raccolte da Levi in momenti e in ambienti diversi: ad Auschwitz dopo la liberazione del Lager, durante l’avventura del ritorno attraverso l’Europa, nella città di Torino poco dopo il rientro, da precoci scambi di lettere con ex compagni di deportazione come lui sopravvissuti.
Tutto questo si trova nella «Relazione» del ’45. Più un pudico calore umano che circola in ogni nome, in ogni informazione incolonnata su quei fogli, battuti a macchina con lo scrupolo di ordine connaturato in Levi. Il segno del suo stile si coglie in un colpo di barra spaziatrice: quello che separa il primo nome dell’elenco, «ABENAIM toscano» – un cognome, una provenienza: per chi andasse in cerca di lui – dalle parole «sapeva fare l’orologiaio». Non: orologiaio, oppure: era orologiaio, ma: sapeva fare. Un ricordo che è già un ritratto stagliato su uno spezzone di rigo: una qualità e un fatto umano, un’apposizione concreta, un segno particolare su un documento d’identità morale, un mestiere praticato bene per buona volontà.
Qui il Primo Levi testimone diventa, fin dal principio, il Primo Levi che sa fare mestieri più complessi: che non si limita ad accumulare dati ma li interroga, li incrocia, ne trae un aumento di empatia oltre che di conoscenza. È qui che Levi diventa, fin dal principio, il Levi che conosciamo: un uomo animato da raro interesse per ciò che gli uomini sono e sanno fare, un testimone e uno scrittore che «sapeva fare» anche lo storico .
La sera del 26 febbraio, all’arrivo, meno di un quinto dei deportati furono selezionati per il lavoro forzato in Lager: novantacinque uomini più ventinove donne. Tutti gli altri furono condotti alle camere a gas.
A un quarto di secolo dai fatti, Primo Levi riuscì dunque a ricostruire l’identità e la sorte di settantasei uomini sui novantacinque che insieme con lui entrarono vivi in Auschwitz. «La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace», avrebbe scritto nel suo ultimo libro I sommersi e i salvati. E quell’ottanta per cento fu realmente un risultato straordinario, una vittoria in una prolungata battaglia contro l’oblio, a favore dell’esattezza dei fatti. Eppure, sarebbe sbagliato considerare un semplice exploit di mnemotecnica il documento inedito riprodotto in questa pagina.
Le cronache apparse nel maggio ’71 sui quotidiani torinesi riportano che Hölzner ricevette in dono da Levi una copia della versione tedesca di Se questo è un uomo, e che la allegò agli atti del processo Bosshammer. Fu un gesto giuridicamente pertinente; quel libro non era un semplice referto: era un’indagine sulla struttura e l’antropologia del Lager, radicata nel terreno dei fatti: al neutro orrore dei numeri davano senso i nomi delle persone, i loro comportamenti, i loro destini. Proprio come in Se questo è un uomo, sul foglio consegnato a Hölzner Levi restituiva il nome a 76 persone già declassate a numeri di matricola.
Il libro pubblicato da Einaudi che oggi raccoglie l’elenco del 1971 s’intitola Così fu Auschwitz. Gli autori in copertina sono due: a Levi si affianca Leonardo De Benedetti, il medico torinese nato nel 1898 che fu con lui durante il ritorno narrato nella Tregua: l’amico o fratello maggiore, l’«uomo buono», la persona dotata di «coraggio silenzioso» con cui Levi scrisse a Katowice, già nella primavera 1945, un rapporto sulle condizioni igienico-sanitarie di Auschwitz che rappresenta la prima testimonianza di carattere scientifico sui Lager resa da ex deportati italiani. Nei decenni successivi, Leonardo e Primo non avrebbero smesso di testimoniare: e più d’una volta, come in occasione del processo Bosshammer, l’uno accanto all’altro.
Così fu Auschwitz è una raccolta di scritti, in gran parte inediti o dispersi, che da oggi si colloca accanto a I sommersi e i salvati: non come un semplice retroscena di quel libro definitivo, ma come un’opera nuova, anzi innovativa e autonoma. Come un libro che porta alla piena evidenza una lezione di metodo: il metodo di Primo Levi, rispetto al quale persino parole come «testimonianza» e «memoria» finiscono per apparire insufficienti: o meglio, monche, perché non rendono giustizia ai modi in cui Levi seppe indagare per oltre quarant’anni i fatti di Auschwitz.
Un esempio concreto: soltanto oggi apprendiamo, grazie a due tra i documenti più remoti (risalgono al 1946-47), che Levi volle materialmente analizzare lo Zyklon B, il gas dello sterminio: «ricerche mie personali» afferma nella prima testimonianza, per poi specificare nella seconda, senza possibilità di equivoco, che «il veleno usato nelle camere a gas di Auschwitz, e da me esaminato», era una sostanza composta «da acido prussico, addizionato di sostanze irritanti e lacrimogene allo scopo di rendere più sensibile la presenza in caso di fughe o rotture degli imballaggi in cui veniva contenuta». Non dovette essere troppo difficile, nell’immediato dopoguerra e per un chimico reduce da Auschwitz, procurarsi una confezione di quella «preparazione chimica in forma di polvere grossolana, di colore grigio-azzurro, contenuta in scatole di latta». Più difficile per noi misurare la forza d’animo necessaria a eseguire l’analisi e a non farne parola, eccetto che in referti destinati alle aule dei tribunali, che solo oggi riemergono.
L’episodio dello Zyklon B rivela che il Levi analista di Auschwitz non fu solo un testimone, ma assunse il ruolo del ricercatore. La differenza è essenziale. Levi ha ricordato più volte che, subito dopo il ritorno a Torino, avvenuto il 19 ottobre 1945, cominciò a raccontare la propria storia spinto da una febbre di necessità: la imponeva a chiunque, anche durante un breve tragitto in tram. Tutto questo è vero ed è all’origine di Se questo è un uomo, ma è solo metà del vero. Dopo la liberazione, Levi non si limitò a consegnare una vicenda a chi fosse disposto ad ascoltarla: impiegò sistematicamente il suo tempo a raccogliere notizie sui compagni di deportazione, dedicandosi a salvare nomi e destini.
Così si spiega, molto prima di quel foglio datato 3 maggio 1971 per il processo Bosshammer, il contenuto della prima testimonianza che rese dopo il ritorno. Ritrovata qualche mese fa nell’Archivio Ebraico Terracini di Torino, la «Relazione del dott. Primo Levi n. di matricola 174517 reduce da Monowitz-Buna» consiste in un elenco di trenta persone coinvolte nella micidiale marcia di evacuazione da Auschwitz decisa dai tedeschi il 17 gennaio 1945.
Quando Levi lo scrisse, tra metà novembre e metà dicembre del ’45, ancora non si conosceva l’esito disastroso della marcia, cui sopravvisse appena un quinto dei prigionieri. Ma la «Relazione» appare sbalorditiva perché è il frutto di un lavoro di ricerca dei fatti, e di deduzione logica a partire dai fatti stessi, che si appoggia a sua volta sull’esame critico di informazioni raccolte da Levi in momenti e in ambienti diversi: ad Auschwitz dopo la liberazione del Lager, durante l’avventura del ritorno attraverso l’Europa, nella città di Torino poco dopo il rientro, da precoci scambi di lettere con ex compagni di deportazione come lui sopravvissuti.
Tutto questo si trova nella «Relazione» del ’45. Più un pudico calore umano che circola in ogni nome, in ogni informazione incolonnata su quei fogli, battuti a macchina con lo scrupolo di ordine connaturato in Levi. Il segno del suo stile si coglie in un colpo di barra spaziatrice: quello che separa il primo nome dell’elenco, «ABENAIM toscano» – un cognome, una provenienza: per chi andasse in cerca di lui – dalle parole «sapeva fare l’orologiaio». Non: orologiaio, oppure: era orologiaio, ma: sapeva fare. Un ricordo che è già un ritratto stagliato su uno spezzone di rigo: una qualità e un fatto umano, un’apposizione concreta, un segno particolare su un documento d’identità morale, un mestiere praticato bene per buona volontà.
Qui il Primo Levi testimone diventa, fin dal principio, il Primo Levi che sa fare mestieri più complessi: che non si limita ad accumulare dati ma li interroga, li incrocia, ne trae un aumento di empatia oltre che di conoscenza. È qui che Levi diventa, fin dal principio, il Levi che conosciamo: un uomo animato da raro interesse per ciò che gli uomini sono e sanno fare, un testimone e uno scrittore che «sapeva fare» anche lo storico .