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“La parola è potente e il segno lascia il segno”, di Michele Serra – La Repubblica 11.01.15

Quasi mi vergogno, adesso, del paio di querele per “vilipendio della religione” che meritai in quanto fondatore e direttore di Cuore, più di vent’anni fa. Scaramucce che mi parvero, ai tempi, grande battaglie. E non lo erano perché la civilizzazione ci ha portato, tra i suoi tanti vantaggi, quello della mediazione giuridica dell’offesa. Il massimo disturbo era cercarsi un buon avvocato. Il massimo rischio, perdere del tempo. Quanto alla “religione” vilipesa devo aggiungere subito, perché non è un dettaglio, che la maggior parte delle (poche) seccature giudiziarie che ci toccarono, a Cuore, scaturirono non dalla suscettibilità dei bigotti, ma da quella delle aziende. La sacralità del Prodotto e del Marchio, già vent’anni fa, era decisamente superiore non solamente a quella degli déi; anche a quella degli esseri umani. Con Grillo — quando lavoravo con lui — avevamo stabilito, in sintesi, che offendere Andreotti era molto meno rischioso che offendere Coccolino.
Uso il verbo “offendere” perché non è intelligente né leale defalcare la satira a semplice attività spiritosa, innocuo divertimento. Non erano simpatici pagliacci, i caduti di Charlie Hebdo. Erano artisti e intellettuali che sapevano di usare un linguaggio di confine, non facile da pronunciare e neppure da capire: il malinteso, ogni satirico lo sa, è pane quotidiano. Sapevano che la parola è potente e che il segno lascia il segno. E sapevano di rischiare la vita, perché la comunità degli offesi, nel loro caso, non riconosce la mediazione giudiziaria (che è dialettica per definizione). Conosce solo, per “lavare l’onta”, il sangue dell’altro. Ed è esattamente questo, per la nostra etica di civilizzati, l’aspetto mostruoso, rivoltante dell’accaduto: imbatterci nella risoluzione pre-civile, primitiva, di un contenzioso culturale.
Allora come oggi non ho mai condiviso, e neppure mai capito fino in fondo, che cosa intende dire chi dice che “la libertà d’espressione non può avere limiti”. Mi sembra una concezione davvero riduttiva della libertà, quasi una sua “neutralizzazione”. Un renderla — appunto — inoffensiva, comoda e facile per tutti, comprensibile a tutti. Invece la libertà (da sempre!) è uno scandalo. Disturba e offende. Urta certezze e conformismi, irrita i repressi, scompiglia convenzioni sociali sedimentate. Il suo “limite” è il cozzo, costante, con sensibilità e usanze altrui. Si pensi, per fare solo un esempio, alla ricaduta sociale della rivoluzione sessuale degli anni Sessanta e Settanta: non è forse per rimediare a quella “offesa” — l’offesa della libertà — che parecchi maschi patologici picchiano e uccidono le loro compagne quando queste scelgono di liberarsi di loro? Non sono forse, costoro, i lanciatori di acido, gli accoltellatori, artefici di un terrorismo diffuso contro l’autodeterminazione delle donne?
E per non parlare sempre degli altri: anche io che sono ateo, e non ho tabernacoli da difendere, mi offendo sovente, per esempio per l’arroganza con la quale i bigotti giudicano strano e divagante il mio punto di vista, come se non fosse strano e divagante, piuttosto, venerare il calcagno di San Vattelappesca. Ma considero l’offesa — come dire — parte del mestiere di vivere e soprattutto del vivere in società. È un urto gestibile, mediabile, a volte addirittura utile perché innesca (capita, mi è capitato) un processo di comprensione reciproca. E qualora non trovassi requie alla mia offesa, potrei sempre rivolgermi a un giudice. Perfino il duello — aggiungo — rientrava nella mediazione giuridica, sia pure in forma cruenta. Era ad armi pari e intriso, per i duellanti e i loro padrini, di un sentimento di lealtà tra chi si odia. Ripeto: lealtà tra chi si odia. Il contrario della vile esecuzione di inermi praticata, ormai su vasta scala, dagli assassini jihadisti.
Non è dunque l’offendersi di fanatici musulmani, siano essi pochi o tanti, il vero scandalo. Ogni essere umano e ogni comunità hanno pieno diritto di considerarsi offesi. Lo scandalo, di tale portata da configurarsi anche “tecnicamente” come una dichiarazione di guerra, è la totale incapacità di quegli offesi di accettare la loro offesa come parte integrante, inevitabile, vitale del confronto culturale e della mediazione giuridica. Vuol dire, tout court, negare alla radice il confronto culturale e la mediazione giuridica.
Ai tempi di Tango ( predecessore di Cuore) Sergio Staino sintetizzò in una vignetta-manifesto la questione satirica, che è poi un sunto “specializzato”, ma molto rappresentativo, della questione della libertà. Un Bobo guerriero, con lo spadone sguainato, lanciava il suo urlo di guerra. “Chi si incazza è perduto”. Sapeva bene, Bobo, che la satira è una spada, metaforica ma tagliente quanto basta a produrre ferite. E sapeva che può anche fare “incazzare”, che anche una matita può essere così ben temperata da diventare acuminata. Ma assegnava giustamente agli offesi il compito di gestire l’offesa. All’epoca non potevamo immaginare che la gestione dell’offesa (la sua elaborazione, direbbe uno psicanalista) sarebbe diventata una questione di vita e di morte; nonché una questione di civiltà. Di vita e di morte della civiltà. Non “la nostra” civiltà: quella di chiunque riconosce la mediazione dei conflitti, ovvero la democrazia, come base della convivenza.
Ci consola e ci illumina considerare che, nel vecchio slogan di Staino, “perduto” è chi si incazza. Chi perde il lume della ragione e del rispetto perde prima di tutto se stesso. Il fanatico è sempre perduto in partenza. Ha sempre perduto in partenza.